(Corriere dello Sport - A.Giardini) La partita era il suo rifugio, la sua tregua, il suo sguardo sul futuro.
rassegna stampa
L’oasi del calcio in una vita tragica
(Corriere dello Sport – A.Giardini) La partita era il suo rifugio, la sua tregua, il suo sguardo sul futuro.
Quando Piermario Morosini entrava in campo, lasciava fuori tutto il resto e diventava quello che aveva sempre sognato, e quello che i suoi genitori avevano sperato per lui. Un calciatore. Un ragazzo felice. Uno come tutti gli altri. Uno di noi.
LA VITA - Gli piacevano i viaggi, la musica di Ligabue, e Anna, la sua Annina. Ieri, quando ha saputo, il suo compagno di Under 21 De Silvestri ha postato su facebook una foto di Moro e Annina assieme, belli e sorridenti sotto gli occhiali neri, al sole dell’isola dell’Elba. Soltanto pochi giorni fa. Era felice di aver scelto Livorno, al mercato di gennaio, perché la Toscana è tutta bellissima e con Anna si divertivano a scoprirla poco alla volta. Il calcio gli aveva regalato la speranza di un futuro e la possibilità di girare l’Italia da un capo all’altro, dalla sua Bergamo a Udine, da Bologna a Reggio Calabria passando per il Veneto, prima Vicenza e poi Padova. E da ultimo Livorno, da dove contava di riprendersi un posto in serie A.
IL CALCIO - Era stata l’Atalanta a cederlo all’Udinese, quando Moro aveva diciannove anni, per dargli la possibilità di andarsene incontro a un destino diverso, migliore di quello che gli aveva preparato la sorte. A Bergamo era diventato una promessa di campione, prima da terzino nella squadra del quartiere, la polisportiva Monterosso, poi a centrocampo, nel famoso vivaio dell’Atalanta, dieci anni alla scuola di Mino Favini e la vittoria di uno scudetto con gli Allievi. Ma anche allora tutto il buono gli succedeva in campo. Fuori no. Aveva perso la mamma, Camilla, prima di compiere quindici anni. Due anni dopo se n’era andato anche il papà, per colpa di un infarto. E poi c’era stata la disgrazia di fratello, disabile, che si era tolto la vita buttandosi da una finestra. Della sua famiglia, a Piermario era rimasta soltanto una sorella più grande, gravemente malata, ricoverata da tempo. Anche la zia Miranda, che lo aveva aiutato ad andare avanti, è morta qualche tempo fa.
LA RABBIA - Ma lui non faceva pesare a nessuno questa sua vita diversa. Tutt’al più ne parlava con equilibrio e maturità. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita ma che al tempo stesso ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era anche un sogno dei miei genitori. Per questo so di avere degli stimoli in più».
LA DOLCEZZA - Il suo babbo calcistico, Favini, ricorda col magone quel suo viso dolce sempre velato di tristezza, «pensavo che la vita gliene avesse fatte già abbastanza, invece è arrivata anche quest’ultima tragedia» . A Favini lo hanno detto quando Moro era già morto, perché era con i suoi ragazzi di oggi su un altro campo, a insegnare come si gioca e come si sta al mondo. «L'ho conosciuto quando aveva dodici anni, ha giocato in tutte le nostre squadre giovanili, è sempre stato capitano, fino alla Primavera». Con la Primavera arrivò alla finale scudetto: l’Atalanta perse, ma lui fu premiato come miglior giocatore. Quando lo chiamarono in azzurro, nell’Under 21, avrebbe voluto che lo vedessero i suoi, che per lui avevano sognato proprio questo. Il suo ct era Casiraghi, Moro un po’ giocava, un po’ no. E giocò sempre meno quando nel gruppo arrivò Marchisio. Ma nel gruppo il leader era lui. «Viveva per la sua famiglia» , dice adesso Favini. E quello che è successo lo ha cantato Ligabue, il suo preferito. Questa è la mia vita, se ho bisogno te lo dico, sono io che guido, io che vado fuori strada. Sempre io che pago, non è mai successo che pagassero per me. Non si può dire che il suo cuore non fosse allenato al dolore. Ma si vede che arriva un momento in cui qualcosa fa crac. Questa è la mia vita, certi giorni non si batte, certi altri meno. E' così che va per tutti, certi giorni è poca, certi giorni sembra troppa, e invece non lo è mai. Era la sua tregua, il rifugio. Era il suo destino.
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