rassegna stampa

Liedholm e Capello? La Roma di Garcia cuore dei romanisti

(Corriere dello Sport – G.Dotto) L’euforia è come la paura, ha un odore riconoscibile. Di questi tempi la puoi respirare per le strade di Roma.

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(Corriere dello Sport - G.Dotto)L’euforia è come la paura, ha un odore riconoscibile. Di questi tempi la puoi respirare per le strade di Roma. Una città intera, o quasi, tra le nuvole, sotto sballo da acido lisergico. Sparata nella stratosfera, come le ceneri di Timothy Leary. In viaggio da una base incantata. “Base incantata” è, che ci crediate o no, l’anagramma di Benatia più Castan, i due che, insieme a De Rossi, hanno reso questa Roma simile alla verginità di Maria, una fortezza inespugnabile. Rapiti, a migliaia, da una banda di ragazzi che ha scoperto il piacere di prendersi la felicità e di restituirla, soprattutto. Wonderful Bradley, l’amico americano, è stato solo il postino di una lettera corale. La vittoria di Udine resterà un capitolo sacro della storia giallorossa. Per com’è avvenuta e per come non era credibile dovesse avvenire. Resterà, al contrario di tante altre più sfarzose ed eleganti vittorie. E’ una Roma, questa di Rudi Garcia, che sta firmando un patto di sangue con la sua gente.

La Roma di Liedholm, Falcao e Di Bartolomei era bella e regale. Tutta da contemplare. Era una squadra da raptus più estetico che viscerale. Incuteva quasi soggezione ai suoi tifosi per come si specchiava nella certezza di sé. Il giorno in cui c’era da menare, menava, ma erano volgari eccezioni. I suoi copioni erano scritti a monte. C’era poco da sudare. Come certe signore di sangue blu che non sprecano mai un gesto e non sbagliano una parola, con le quali non ti viene da fantasticare un amplesso selvaggio sulla prima branda che capita. La Roma di Fabio Capello era costruita per vincere. Talentuosa e pragmatica, come il suo allenatore. Messa su a botte di miliardi da un Franco Sensi stufo marcio di euforie laziali. Con il giovane Totti e l’ultimo grande Batistuta. Erano, l’una e l’altra, due squadre dalla prevedibile grandezza, che avrebbero dovuto vincere più di quanto sia capitato.

Quella di Rudi Garcia è la Roma che più somiglia al cuore dei romanisti. Un caso d’identificazione unico, ai confini del religioso. Squadra che recita a soggetto. Che fa di ogni partita un’impresa diversa, da inventare e da ricordare. Giocatori e seguaci, un insieme da mucchio selvaggio, sesso esplicito, nella stessa folle mongolfiera, in viaggio verso non si sa dove. I romanisti anche più scettici cominciano a pensare di aver trovato la squadra della loro vita. Una somma di personaggi, a cominciare dall’allenatore, che sembrano stampati sul conio del romanista perfetto. De Rossi e Totti, Benatia e Castan, De Sanctis e Balzaretti, Strootman e Florenzi, sono la vertigine che risucchia tutto il resto della banda. Incluso quel Liajic che sembrava, fino a domenica, il più estraneo al paesaggio. E visto a Udine, invece, sbattersi come un dannato.

A differenza della Roma dei Liedholm e dei Capello, questa di Garcia è una squadra che nasce dalle ceneri di progetti in fumo, abbandonata come un’orfanella sui gradini di una chiesa sconsacrata. Indossava abiti di lusso, ma non respirava. Non ci credeva più nessuno, a parte un signore di nome Walter, uno che si fuma anche i cuscini dove eventualmente dorme. Prende la creatura malconcia, le cambia i pannolini, la veste di abiti più consoni e l’affida a una lupa di nome Rudi, che la nutra con il suo latte sano e forte. Rudi se ne frega della storia recente. Incuriosito, getta il suo sguardo celeste e leale su quel piagnucolante fagotto. Gli piace. Dalle sue mammelle il latte sprizza che è un piacere. Il resto lo sapete, è tutta salute, è la storia folle di questi giorni, da musicare solo con un rap fatto di numeri e record. Questa inverosimile Roma è destinata, anche per le sue origini, a essere amata come nessun’altra del passato.

Gli Invincibili piacciono molto anche fuori le mura. E’ la Roma dei romanisti, ma anche la Roma più lontana dal cortile spesso angusto, provinciale e maldicente della città. Le sue imprese l’hanno trasferita ormai nelle dicerie del pianeta, quasi nella leggenda. Mai stata allo stesso tempo così locale e globale. Osservatori di tutto il mondo la studiano e la incensano. Storia contagiosa e tifosi improbabili. L’abbiamo sentito noi, Eros Ramazzotti, pochi giorni fa, in concerto ad Atlantic City, urlare, lui, juventino sfegatato, “Forza Roma”, dopo essersi ritrovato tra le mani uno straccio giallorosso. E due giorni dopo a New York, da Zio Mario, noto covo partenopeo dalle parti di Times Square, davanti a un piatto esagerato di spaghetti alle vongole, romanisti e napoletani della Grande Mela stringere il grande patto: “Quest’anno, Roma o Napoli, lo scudetto è roba nostra”.