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Burdisso: “Attenta Juve, questa Roma vuole lo scudetto”

(Corriere dello Sport – R.Maida/ A.Ghaicci) El Leon viene da Altos de Chipiòn, un paese di millecinquecento anime nella provincia di Cordoba

Redazione

(Corriere dello Sport - R.Maida/ A.Ghaicci) El Leon viene da Altos de Chipiòn, un paese di millecinquecento anime nella provincia di Cordoba popolato soprattutto dagli italiani arrivati dal Piemonte. Nicolas Burdisso esibisce con orgoglio quel «sangue» che è anche dna calcistico, alimentato nel club più italiano d’Argentina, il Boca, affinato con la lunga militanza prima nell’Inter e poi nella Roma. Il poeta messicano Octavio Paz con un pizzico di perfidia definì gli argentini «italiani che parlano spagnolo e si credono francesi».

Eppure questo orgoglio di mescolare culture e stili resta il tratto più affascinante dei calciatori argentini. Gente affidabile sul campo; duri e determinati quando ricoprono i ruoli difensivi. Gente come Samuel, a cui Nicolas si è ispirato, o come Ruggeri, che con Maradona vinse un Mondiale, o come Passarella e Tarantini che il Mondiale lo vinsero prima del Divino Diego, o come Sensini che Mondiali non ne ha vinti (è arrivato secondo a Roma, la sera delle lacrime di Maradona) ma è stato uno tra i più intelligenti difensori che si sia visto all’opera sui campi di calcio.

Nicolas porta sulle sue gambe i segni delle battaglie: l’ultimo è quello che lo ha tenuto lontano dagli stadi per quasi una stagione intera riconsegnandolo tutto nuovo e rigenerato a Zdenek Zeman. Vuole vincere, Burdisso: per i suoi tifosi e per sé. Nella Roma profondamente rinnovata, lui è un Veterano: della sua esperienza la squadra non può fare a meno per far capire ai nuovi come Castan le insidie del calcio italiano e ai giovani come Marquinhos o Romagnoli le strade da seguire per arrivare dove è arrivato lui. In questa lunga chiacchierata a più voci racconta il suo calcio, la sua passione e le sue partite confidando che la prossima sia sempre la migliore.

 Buongiorno Burdisso, finalmente un weekend di riposo.

«Ogni tanto ci vuole. Sarà un’occasione per girare per Roma con la famiglia: farò una bella passeggiata nel centro storico. Poi da lunedì cominceremo a pensare al Bologna».

La vittoria di San Siro ha rilanciato l’entusiasmo della gente.

«E’ una cosa buona, importante. Ma noi dobbiamo restare con i piedi per terra, perché a Roma ci si illude facilmente. In questo senso la sosta ci aiuterà a metabolizzare il risultato di Milano e a rimetterci al lavoro con umiltà e determinazione. Il Bologna sarà un avversario tosto, come il Catania: noi soffriamo certe partite, per una questione di testa».

E gli scudetti, come diceva Capello, si vincono contro le squadre meno importanti...

«Esatto. Ricordo che il primo scudetto che vinsi nell’Inter passò proprio attraverso queste partite. Anche adesso se vogliamo lottare per il vertice, che poi è il nostro dovere, dobbiamo ragionare partita per partita senza mai perdere concentrazione».

Se la sente di dire che questa Roma è da scudetto?

«La parola non mi fa paura, perché non sono scaramantico. Perciò dico: la Roma merita di vincere, il suo posto è tra le società che vincono. Quindi l’obiettivo minimo è giocarsela fino in fondo, lottare per il primo posto. Conteranno la fame e la convinzione, oltre alla qualità. Io credo che ci siano ma poi sarà il campo a decidere».

Tornando dopo l’infortunio che squadra ha ritrovato?

«Una Roma più matura, grazie al rinnovamento dell’organico. La società è la stessa, la squadra no. In più c’è Zeman che ha più esperienza e più storia di Luis Enrique ma ha le stesse idee di chi l’ha preceduto: vuole giocare su tutti i campi per vincere».

Cosa ha sbagliato Luis Enrique l’anno scorso?

«Premesso che dopo un campionato così la colpa non può essere attribuita esclusivamente all’allenatore, Luis ha pagato l’inesperienza. Solo quello. Ma è un bravo tecnico e una persona coinvolgente, sicura delle proprie idee. Un vero maestro. Sono sicuro che il suo modello di calcio sia esportabile. Certo, ha bisogno di più tempo di quello che ha avuto lui».

La differenza principale che ha notato tra Zeman e Luis Enrique?

«Sono cambiati i metodi di allenamento: ora facciamo tanta preparazione atletica. In partita l’avete visto: con Luis Enrique tenevamo la palla, gestivamo il possesso aspettando il momento per attaccare. Adesso è il contrario: si va verso l’area avversaria il prima possibile».

Com’è Zeman visto da un difensore?

«Me l’avevano descritto come un allenatore che non curava la fase difensiva. Invece è molto attento ed equilibrato. In poche parole fa capire cosa vuole dai giocatori. Ha uno stile di comportamento che mi piace e che può essere d’aiuto ai giovani».

E il suo compagno di reparto Castan che impressione le ha fatto?

«Ottima. E’ un giocatore esperto e serio, che sa quando deve anticipare e quando deve ripiegare. Io cerco di fargli capire come giocano certi calciatori che forse lui ancora non conosce».

Per un difensore sudamericano qual è la principale difficoltà nel periodo di adattamento?

«In Italia, soprattutto nelle grandi squadre, la difesa gioca alta e in linea. In Sudamerica non è così, c’è sempre uno dei due centrali che si stacca come un libero. Anche io ho faticato all’inizio, nell’Inter: Mancini si arrabbiava perché tenevo in gioco gli attaccanti avversari. Non salivo con i tempi giusti. E poi c’è un altro problema: la palla in serie A corre molto più veloce».

E dei giovani Marquinhos e Romagnoli cosa dice?

«Sono molto bravi. Marquinhos è velocissimo, ha una forza fisica che si nota subito. Romagnoli invece è il tipico centrale italiano, ben posizionato, difficile da saltare, bravo tatticamente. E gioca il pallone senza buttarlo mai via».

Anche dopo il grave infortunio, Burdisso è tornato un punto di riferimento insostituibile per tutti.

«Io faccio uscire la difesa, oppure la richiamo. Ma i primi movimenti in fase di non possesso spettano agli attaccanti. Se gli attaccanti vanno in pressing noi difensori dobbiamo salire, altrimenti perdiamo compattezza. Contro l’Inter il meccanismo ha funzionato: avete visto Totti quanto ha corso fino all’ultimo minuto?»

Nello spogliatoio, poi, tutti ascoltano le urla di Burdisso.

«Per forza! Dei vecchi siamo rimasti in tre (ride, ndr)... Scherzi a parte, mi piace farmi sentire con i compagni. Anche a costo di scontrarmi con qualcuno. Così posso essere d’aiuto alla squadra e soprattutto a chi deve fare esperienza».

Lamela dice che Burdisso sta avendo un ruolo fondamentale per la sua maturazione.

«Sono felice di questo. E sono convinto che questo sarà l’anno di Erik. Ha voglia e qualità. Deve far vedere il suo calcio e ci riuscirà, perché tutti lo stanno aiutando a crescere. Non solo io».

A Riscone, però, aveva scommesso sull’esplosione di Florenzi. E’ stato accontentato.

«Mi aveva colpito per la personalità: è sempre allegro e motivato. In più ha il vantaggio di conoscere bene l’ambiente essendo romano. E’ un giocatore importante per noi e potrebbe diventarlo anche per la nazionale italiana».

La difesa sembra più compatta. Forse grazie all’intesa ritrovata con Stekelenburg?

«Per un fatto linguistico, ora le cose vanno meglio. Ma Stekelenburg non è mai stato un problema per la Roma. E se ora gioca più fuori dai pali, è perché gliel’ha chiesto Zeman (prima non succedeva, evidentemente, ndr)».

In questo campionato quali sono le rivali della Roma?

«La Juventus è la più forte: a lei dovremo cercare di strappare lo scudetto. Invece mi pare che le milanesi abbiano perso qualcosa. E lo stesso Napoli, senza Lavezzi, è diverso. Ma non dobbiamo pensare agli altri. Dobbiamo ragionare su noi stessi, con la convinzione di fare una grande stagione».

Il fatto di non giocare le coppe è un vantaggio.

«Per l’allenatore forse, ma per un giocatore no. Un giocatore trova la condizione più facilmente se va in campo ogni tre giorni. E’ anche un allenamento per la testa: quando vinci, giochi la partita successiva più carico; quando perdi, hai subito la possibilità di rifarti. No no, a me le coppe mancano. E credo manchino anche alla Roma come società».

Che effetto le fa giocare in una serie A così impoverita?

«Non la vedo così povera. Sono andati via dei campioni, ma il fascino del campionato resta uguale. Inoltre, questa situazione crea anche un circuito positivo: si darà spazio ai giovani. Solo in Italia non succede. In Spagna o in Argentina i club fanno giocare i loro ragazzi. Qui invece si mandano in provincia a maturare. Perché?».

Perché in Italia contano solo i risultati, pure nel breve periodo.

«Appunto. Invece i giovani vanno lanciati e aspettati: devono avere la possibilità di sbagliare».

Ne ha fatto le spese suo fratello Guillermo, nella Roma: poche comparsate nella stagione 2010-2011, poi a casa.

«Già, ha pagato un anno difficile e anche la scarsa maturità. Adesso in Argentina sta andando forte: se venisse oggi, sarebbe un’altra storia».

Chi è stato il Burdisso di Burdisso? Quale personaggio si sente di ringraziare per la sua crescita di calciatore?

«Carlos Bianchi. So che a Roma è andato male. Ma in Argentina è l’allenatore numero uno. E per me è come un padre: è venuto anche a Trigoria recentemente, ci sentiamo spesso».

Da ragazzino in carriera immaginava di diventare così forte e conosciuto?

«No. Pensate che sono arrivato per la prima volta all’Olimpico con il Boca nell’estate del 2001 per l’amichevole di presentazione della Roma, che aveva appena vinto lo scudetto. Quando ho visto lo stadio pieno e lo show, con tutte quelle luci, mi sono detto: sarebbe incredibile giocare qui un giorno. Ci sono riuscito».

Anche a costo di lasciare l’Inter all’alba del triplete.

«E’ stata una scelta difficile, a maggior ragione il primo anno quando accettai di trasferirmi in prestito. Ma era giusto così: non riuscivo più esprimermi come calciatore. Non ho rimpianti sul passato. Nemmeno per gli errori. Se sono quello che sono, lo devo alle esperienze che ho fatto».

Chi è stato l’attaccante che l’ha fatta più soffrire?

«Milito. Domenica scorsa l’abbiamo fermato, ma in passato ci ha fatto tanti gol. Un fenomeno, un attaccante da studiare nelle scuole calcio».

Il suo modello da giovane calciatore chi è stato?

«Samuel, che ha tre anni più di me ed è nato nel Boca. Poi siamo diventati amici e abbiamo giocato insieme. Ma mi piacevano anche Ayala e Sensini, difensori molto intelligenti. E poi Ruggeri, il centrale dell’Argentina campione del mondo nel 1986».

Burdisso si è anche sposato giovanissimo. E’ vero che la famiglia facilita la serenità di un calciatore?

«In linea di massima sì. Avere una donna accanto è un grande sostegno. Poi però (altra risata, ndr) c’è sempre il Borriello di turno, che sta bene da solo...».

Adesso a che punto è della sua carriera? L’infortunio fa parte del passato?

«Sì. Devo solo superare certe paure, ritrovare fiducia. Sui colpi di testa, sugli interventi. Con qualche partita, tutto sarà risolto».

Ha rivisto le immagini dell’incidente di novembre?

«Molte volte. All’inizio mi facevano impressione, poi le ho sopportate meglio. Ora il ricordo di quel giorno, di Colombia-Argentina, non mi pesa più».

In ritiro ha confessato che ha temuto di non farcela a guarire.

«Tutti i giorni l’ho pensato. Ma è stato uno stimolo a tornare in forma presto. Nel lavoro, qualsiasi lavoro, se dai tutto per scontato tendi ad adagiarti. Io non mi adagio e penso sempre alla prossima sfida».

Ora che sta di nuovo bene, la sua sfida è vincere. In tre anni alla Roma è ancora a secco, dopo 19 trofei conquistati in carriera.

«Infatti. E per l’aria che respiro qui, so quanto sarebbe bello uno scudetto a Roma. Lavoro per questo».

Meglio lo scudetto del Mondiale con l’Argentina?

«Sono sincero, parlo da argentino che ha sangue italiano. Vincere il Mondiale in Brasile sarebbe il massimo... Ma adesso penso soprattutto allo scudetto con la Roma. Sono convinto che mi darebbe anche lo slancio per fare il massimo in nazionale. Quindi: fatemi vincere qui, poi mi dedicherò al Mondiale».

Resterà sempre alla Roma?

«Non mi piacciono questi annunci, perché nel calcio le cose cambiano. Magari nel 2014, quando mi scadrà il contratto, sarà la Roma a non volermi più perché non ho meritato di continuare. Di sicuro qui sto benissimo, mi sento realizzato. E ho apprezzato tanto il gesto dei dirigenti dello scorso anno: subito dopo l’operazione al ginocchio, mi hanno proposto di prolungare il contratto. E’ una dimostrazione di stima che non dimenticherò. Sono stato io a chiedere di rimandare il discorso».

A Roma è un idolo dei tifosi. E magari per questo non è tanto amato dagli avversari.

«Sono felice della stima della gente. L’affetto dei tifosi mi ha aiutato tanto nel periodo della convalescenza. Sul carattere, beh, anche nelle altre squadre ci sono giocatori come me: penso a Chiellini della Juve, o a Campagnaro del Napoli, colleghi con cui è facile litigare».

E nei derby con la Lazio con chi ha discusso?

«Dias. Ma certi problemi nascono e finiscono sul campo. Nessun rancore».

Come giudica la nuova struttura societaria? Le piace Pallotta presidente a distanza?

«L’ho conosciuto a Boston, mi ha fatto un’ottima impressione: è una persona di spessore, interessata, ha voluto conoscerci uno per uno. Non è un problema se il presidente passa molto tempo in America. Per un giocatore è importante che ci sia una società. E la società, con Baldini, Sabatini e Fenucci, è molto presente».