Dopo anni di silenzio "perché era meglio così", Francesco Totti si racconta a "Vanity Fair" in un'intervista tra passato e futuro. Questo uno stralcio delle sue dichiarazioni:
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Totti: “Un incubo l’ultimo anno da calciatore, non tutti mi sono stati vicini”
L'ex capitano: "Avevo l'ambizione di essere come Giannini, non ho mai deciso le formazioni. Spalletti cercava costantemente il litigio"
In trent'anni lei ha rilasciato pochissime interviste.
Non sono egocentrico. Non sono uno a cui piace parlare, preferisco fare tre passi indietro, nascondermi, sparire, se è possibile. Al mio posto doveva parlare il campo. Con me c’era sempre un rischio. A me piace scherzare, ma dietro una battuta c’è spesso la verità. E la verità certe volte era meglio non esprimerla. Dire quello che sapevo, o che pensavo, avrebbe creato problemi. Avrei fatto solo danni: a me stesso e alla società. Preferivo evitare. Per anni ascoltare tante cose false sul mio conto mi ha fatto soffrire. C’erano momenti in cui per smentire le bugie che raccontavano sui giornali, in radio o in tv, sarei andato in guerra. Preferivo evitare.
Poi cos'è successo?
Mi sono abituato, ho capito che il mondo è fatto così. Chiunque dice la sua e ognuno si fa la propria idea. Di quello che dice la gente ormai non me ne frega più niente. Le cose che contano davvero? Oltre alla famiglia, la parola data. Non servono firme, contratti o avvocati. Basta una stretta di mano. Basta guardarsi negli occhi. Ma negli ultimi anni la parola data con me l'hanno mantenuta poco.
Che ambizione aveva?
Essere come Peppe Giannini, il capitano della Roma della mia giovinezza. Lo identificavo come il principe di Roma, il numero 10 per eccellenza. Quando mi convocarono in prima squadra chiesi se era possibile dividere la stanza con Peppe. Me lo concessero. Era un sogno ad occhi aperti. Lì, nel letto accanto al mio dormiva la persona di cui avevo il poster in camera. Mi faceva effetto.
Di lei dicevano che della Roma decidesse campagne acquisti, formazioni, allenatori.
Tutte cazzate. Non c’è un solo compagno o allenatore tra i tantissimi che ho conosciuto che possa dirmi in faccia: “Hai deciso, hai chiesto, hai preteso”. Camminerò sempre a testa alta perché mi sono allenato sul campo e non ho mai detto “fai giocare questo o fai giocare quello”. Non ho mai chiesto niente, a parte di poter vincere. È vero, volevo. Volevo giocatori forti come Buffon, Thuram e Cannavaro perché non avevo nessuna voglia di fare il bamboccio mentre gli altri festeggiavano. Qual è la colpa? Dov’è?
Quanto è stato doloroso il ritiro?
E' stato uno schock: rendersi conto di dover lasciare tutto quello che avevo fatto e che ero stato è stato durissimo. Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma ho iniziato a considerare l’ipotesi solo nell’ultimo anno. Nella stagione precedente avevo capito che non avrebbero voluto rinnovarmi il contratto: però, poi, ogni volta che subentravo cambiavo le partite e facevo gol. Dopo quella con il Torino, dove entrando a 4 minuti dalla fine ne feci due, me lo rinnovarono a furor di popolo. Mi sarei dovuto ritirare in quella sera perfetta, dopo l’apoteosi, come mi suggerì Ilary e ci pensai anche. Poi dopo una notte insonne decisi di continuare, ma il rapporto con Spalletti (lo dice senza citarlo, ndr) purtroppo era già compromesso.
Il rapporto con Spalletti iniziò a compromettersi prima.
Voglio fare una premessa: l’allenatore sceglie chi mettere in campo in assoluta autonomia. È giustamente padrone delle decisioni e io non mi sono mai permesso di metterle in discussione né di contestarle. Poi c’è un discorso di umanità e lì le cose cambiano. Più mi impegnavo, più lui cercava la rottura, la provocazione, il litigio o il pretesto. Capii in fretta che in quelle condizioni proseguire sarebbe stato impossibile. Così, per la prima volta in 25 anni di Roma, tra gennaio e febbraio, mollai.
I suoi compagni non le stavano vicini?
Alcuni sì e altri no. Temevano la reazione del mister, che potesse dire: “Voi state con lui”. È triste? È brutto? Purtroppo è umano e i rapporti fraterni nel calcio sono ben pochi. Quell’ultimo anno comunque fu un incubo. Mi vedevo superare da giocatori che magari non si allenavano per tutta la settimana e poi la domenica erano in campo. In quei giorni iniziai a ripensare a come si comportava agli inizi, quando ero il capitano, il simbolo, il giocatore indiscusso. E capire che mi stavano dicendo: “Hai quarant’anni, fatti da parte, non rompere i coglioni”, mi fece male.
Farebbe mai l'allenatore?
Sarebbe impossibile. Impazzirei. Sono uno che vuole sempre il massimo e pensa che certi errori in serie A non si possano fare. Dovrei diventare severo, aspro, antipatico. Se non ci nasci, figlio di mignotta, non ci diventi.
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