(La Stampa-S.Di Segni) Il calcio arrogante e travolgente promesso dalla nuova Roma resta un'intrigante idea di partenza. Tangibili e opprimenti sono i risultati: fuori dall'Europa League,
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Totti gioca, la Roma no Per Luis Enrique altro flop
(La Stampa-S.Di Segni) Il calcio arrogante e travolgente promesso dalla nuova Roma resta un’intrigante idea di partenza. Tangibili e opprimenti sono i risultati: fuori dall’Europa League,
sconfitta in casa all'esordio in campionato da un Cagliari neanche esplosivo, eppure organizzato quanto basta per accendere la miccia in casa giallorossa. Alla presentazione del progetto giallorosso, la società chiedeva "complicità" ai tifosi, ora è già una questione di pazienza. Quanta ne concederà ancora la Capitale è il dubbio che tutti si pongono, mentre gli americani hanno fatto il pieno di tolleranza: «Ho visto e apprezzato i progressi fatti dalla squadra - dice DiBenedetto da Boston -. Spero che il lavoro che tutti stanno facendo, giocatori, allenatore e società, presto dia i suoi frutti anche in termini di risultati».Fuori un caso, quello di Totti (rimasto in campo per tutta la durata dell'incontro), dentro un altro: la Roma produce ma non segna, studia a testa china la filosofia di Luis Enrique ma non la traduce. Quando segna, è il 95', lo fa con una ribattuta di De Rossi: per l'arbitro Gava non c'è il tempo di portare il pallone al centro, il Cagliari si era già assicurato la festa con il gol di Daniele Conti, il figlio che non smette di dare dispiaceri a papà Bruno, e quello di El Kabir.Questa volta Luis Enrique lascia da parte gli atteggiamenti alla Mourinho, abbassa le orecchie, fa il pieno di responsabilità («La colpa è mia») e ha un sussulto soltanto quando viene messo in discussione il suo impianto di gioco: «Non cambio, è grazie alle mie convinzioni che sono arrivato sulla panchina della Roma». Lo spagnolo è convinto che sia una questione di metabolismo, «necesito tiempo», ripete. E quando è chiamato a dare un giudizio sugli interpreti che la società gli ha messo a disposizione, sceglie la formula migliore per non rispondere: «I miei giocatori sono sempre i migliori».A Daniele De Rossi il dribbling riesce a metà, perché se è vero che «la squadra ha già una sua identità», va anche registrato che bisogna «costruire quella vincente. Ci manca concretezza, non si arriva mai in rete». Il centrocampista della Nazionale ha l'aria serena, forse fin troppo: sfiora il dimesso, tira fuori la verve solo quando attacca «chi decide di far giocare le partite con questo caldo. Per capire che le prime 4 andrebbero giocate di sera e quelle invernali di giorno non ci vorrebbe uno scienziato». Non ce ne vuole uno neanche per fiutare il pericolo di un rinnovo di contratto che stenta ad arrivare. De Rossi prova a raccontarsi sereno, ma dietro l'angolo c'è un nuovo caso che rischia di esplodere: «Non c'è bisogno di parlarne giorno per giorno. Ci saranno degli incontri ma non è una situazione che vivo con ansia». E se sul volto portasse la maschera del Mister X rossonero? «Il Milan ha già preso abbastanza giocatori», risponde De Rossi.Quelli che ha preso la Roma, nel frattempo, stentano a concretizzare: tanto il centrocampista quanto l'allenatore, riconoscono il problema. Luis Enrique ha calato tutte le carte a disposizione, è partito con il tridente Bojan-Totti-Osvaldo, ha sostituito gli esterni con Borriello e Borini: stesso risultato, stessa incapacità di affondare il colpo, a fronte di un palleggio talvolta anche raffinato. Meno elegante è stato invece il calcione con cui José Angel ha costretto la Roma in dieci, pochi secondi dopo lo svantaggio. Mesi fa, da Boston, annunciavano tolleranza zero verso simili ingenuità. E impartivano il diktat di non parlare mai degli arbitri. Magra consolazione che nessuno abbia fiatato sul presunto fallo di mano in occasione del vantaggio cagliaritano.
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