(FourFourTwo R. Renga) - A cinque anni scese in un campetto di terra battuta, che c’è ancora dalle parti di Porta Metronia, appena oltre gli archi. Una tribunetta, spogliatoi di cemento, il terreno grigio, a cento metri la casa in cui era nato e dal balcone della quale, sporgendosi, poteva vederlo sua madre, Fiorella, occhi così chiari da raccogliere il colore del cielo.
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Totti: da bambino a gladiatore
(FourFourTwo R. Renga) – A cinque anni scese in un campetto di terra battuta, che c’è ancora dalle parti di Porta Metronia, appena oltre gli archi.
Francesco prendeva il pallone, che intanto si era fatto di cuoio, dribblava tutti e faceva gol. Capocannoniere in tutti i tornei cui partecipava. L’allenatore chiamò i genitori e cercò invano di convincerli a firmare un contrattino, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto bloccare il ragazzo per sempre. L’estate la famiglia andava a Torvaianica, litorale sud, un quartiere di Roma davanti al mare. Quattro amici cercavano campi di calcetto e avversari. Dicevano: per arrivare a cinque, facciamo giocare il bambino. Gli altri guardavano il ragazzo e facevano: d’accordo, non gli faremo male.
Totti così, quando era ancora magrissimo e alto un paio di palmi, prendeva la palla, le diceva qualcosa e la nascondeva. I quattro più il bambino vincevano sempre. Tottino passò alla Smit Trastevere, quindi lo prese la Lodigiani. La madre l’accompagnava tutti i giorni alla Borghesiana, attraversando Roma, un viaggio senza fine. Si cominciò a parlare di lui, che, nel frattempo, era stato impiegato come regista, il che non gli impediva certo di volare e fare gol. Ci sono immagini di un derby di allora. Da una parte la Lazio di Nesta, dall’altra la Lodigiani di Totti. La stessa età, i due ragazzi, una classe innata e affascinante, un futuro che li avrebbe sempre visti avversari e amici, sino al titolo mondiale del 2006, quando finalmente si trovarono dalla stessa, magnifica, parte.
Un giorno, racconta Francesco con l’aria di chi svela una leggenda, la Lodigiani se la vide con la Roma. Lui era in panchina. Le squadre giocavano, gli capitò tra i piedi un pallone, si mise a palleggiare. Il responsabile del settore giovanile della Roma era Raffaele Ranucci, che riuscì nell’impresa di prenderlo gratis. C’è una foto di Dino Viola, il presidente che premia Totti, poco più che bambino, esile, biondo, l’espressione di chi sa di valere. Viola gli disse: continua così e diventerai titolare. Ha continuato, vincendo un titolo con gli allievi, passando di corsa in Primavera, che si andava a vedere per vedere lui. La domanda dei cronisti, quando aveva sedici anni, non era: ha segnato Totti? Era: quanti gol ha fatto Totti? Ne fece due, un sabato. All’intervallo gli dissero: vai a Brescia con la prima squadra. L’allenatore era Boskov.
A due minuti dalla fine gli fece un cenno, che significava: entra, tocca a te. Accanto a Totti c’era Muzzi e il ragazzo pensò di aver visto male, doveva entrare l’altro, non lui. Muzzi lo spinse in campo per l’esordio in serie A: vai, sbrigati. Era il 28 marzo del 1993, più di venti anni fa. Una data che tutti i tifosi romanisti sanno a memoria, come quella del suo compleanno, il 27 settembre. Dopo Boskov, Carlo Mazzone. Ricorda: “Un giorno mi serviva un ragazzo per fare una partitella. Mi mandarono un biondino che faceva tenerezza, ma dalla faccia svelta. Rimasi a bocca aperta”. Gli disse di rimanere con i titolari. Prime partite e primi gol. Roma s’innamorò. Lo voleva sempre in campo, ma Totti non aveva ancora diciotto anni e Mazzone voleva farlo crescere alla sua maniera. “Più me lo chiedevano e più lo nascondevo: non si scherza con i ragazzi”.
Dicevano: ha il sederone tipico del romano scansafatiche. Mazzone lo mandò da un medico, poi disse: “Sono muscoli, altro che sederone”. La Roma voleva prendere Litmanen e l’allenatore si oppose: “Totti è più forte”. Lo era, ma lo sapevano solo in due, tecnico e giocatore. Poi l’avremmo scoperto tutti. Ma a Roma ancora il dibattito si aprì: pigro come tutti i romani dall’impero in poi, papalini compresi, o pagana divinità del pallone? Arrivò da un altro mondo Carlos Bianchi, capelli ricci, alto, una volta centravanti, convinto di aver inventato il calcio e i calciatori. Totti non gli piacque. Subito. Disamore a prima vista. Fece in pubblico: “Un giocatore normale. In Argentina c’è uno che gli nasconde la palla, Pandolfi”.
Il prestigiatore venne preso dal Perugia e rispedito al mittente: un giocoliere, non un giocatore. Ma la sorte di Totti sembrava segnata, ormai. Lo chiese la Samp e Francesco, offeso e indifeso, disse sì, vado. Giocò un torneo per salutare i tifosi: i bagagli pronti, il biglietto in tasca, già in testa le trenette al pesto, la passeggiata di Nervi, Marassi. In passato lo voleva il Milan e Ciarrapico stava per darlo. Fu la famiglia a opporsi. Totti a Milano, ma dai… Si perde nella nebbia, povero ragazzo. La Samp, però, era un’altra cosa. Ed era cresciuto. Giocò la sua ultima partita e si scatenarono tuoni e fulmini e Totti, che disegnò e propose calcio inedito e fantasioso, un saluto arabescato e insieme un robusto vaffa all’allenatore. Quello show l’abbiamo ancora negli occhi.
Venne mandato via Carlos Bianchi, non il giocatore, che vinse così, senza far guerra, ma solo accarezzando la vecchia amica del cuore, la palla, la sua prima battaglia. Indossò l’azzurro. Nazionali giovanili, Giochi del Mediterraneo. Europei Under 21: dove c’era lui, l’Italia vinceva. Un giorno lo chiamò, più che altro curioso, Arrigo Sacchi. Gli avevano parlato male del ragazzo. Che si comportò benissimo, invece, mangiando con le posate e senza mettersi le dita nel naso. Fece due gol su cucchiaio. Un incanto. Era giovane, però. Bisognava ancora aspettare. Sacchi scrisse sul suo taccuino: questo è un fenomeno. Aveva un solo problema, Totti: era romano. Direte: e che è un problema? Sì, lo è. Nel calcio sostengono che i romani sono bravi, ma non hanno voglia di lavorare, tecnici e indisciplinati e anarchici. Il bello o il brutto è questo: una tesi del genere la sostengono anche a Roma, dove si conoscono bene. Roma è poi una strana e meravigliosa città e per le strade del centro il venticello, sbuffando e travolgendo, diventa un tornado. Così il romano Totti era criticato in Italia e pure nella sua città: fece il pieno, insomma. Parla male, non ha studiato e si vede, quante ne dicevano. Totti in realtà s’irrigidiva davanti alle telecamere, che tolgono spontaneità a tutti, figuriamoci a un ragazzo già al centro delle polemiche e dunque a un passo dai complessi. In privato era sciolto, divertente, simpatico. Poi si bloccava. Superò lo scoglio scherzando su se stesso, grazie al famoso libro sulle barzellette su Totti. Si dava dell’ignorante, ma in modo spassoso. La gente apprezzò. Dicevano anche: non è un vincente, non fa la differenza, si perde nei momenti decisivi. Ha vinto uno scudetto. Ha segnato gol come mai nessun trequartista prima.
Ha battuto tutti in record di durata. Ha vinto un mondiale ed è arrivato secondo a un Europeo. Ha preso una Scarpa d’oro. Ha recuperato in tre mesi da un infortunio che poteva fargli chiudere la carriera. Ha segnato contro l’Australia il rigore più pesante del calcio azzurro: Pirlo gli mise il pallone in mano e gli disse di far gol. Passarono due minuti da quel momento al tiro. Gli venne chiesto: a che pensavi? E lui: a come esultare. Si era sposato, nel frattempo con Ilary Blasi, bella e simpatica. Matrimonio dato in diretta televisiva, con tanto di record d’ascolto. Ed era nato il primo bambino, Cristian. Eccolo, dunque, fare il giro del campo, dopo il rigore della vita, con il dito in bocca. La foto fece nascere un personaggio mondiale. Totti divenne la Roma e il calcio italiano. Come Rossi e Baggio prima. Altro rigore niente male, quello segnato all’Olanda agli Europei del Duemila. Quando disse a Maldini: mo’ gli faccio il cucchiaio. E lo fece. Il momento nero agli Europei portoghesi, quando sputò a Poulsen. Cancellarono in fretta le provocazioni del danese, la telecamera puntata su di lui, dunque la programmazione degli avversari. Si scatenarono contro il romano. Ha sbagliato, chiaro. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo. Ma sembra che sia successo solo a lui. A Totti del calcio nel sedere a Balotelli, a Totti del quattro e a casa mostrato alla Juve, a Totti del vi ho purgato ancora nel derby, al Totti del sei unica, al Totti che offre a un ospedale lo stipendio mensile, al Totti che dimentica un assegno milionario in macchina e lo ritrova per caso dopo mesi, al Totti che ogni giorno dedica ore a quei bambini che vogliono vederlo sorridere da vicino. Nato per stupire, divertire, dividere.
Lasciò la Nazionale per tutti gli insulti ricevuti nei giorni mondiali. L’hanno criticato anche per quello. Gli stessi che ora lo vorrebbero di nuovo azzurro: vieni a salvarci, Francesco. Pronti a pugnalarlo di nuovo in caso d’insuccesso. Totti non porta rancore. Lasciamo perdere l’eccesso di generosità: Francesco, non San Francesco. Solo che non perde tempo. Alza le spalle, allunga il passo e va oltre. In questo sì è profondamente romano. Ama la sua città, se la sente addosso come un abito cucito su misura, ama la gente, anche nelle sue esagerazioni. Stava per tradire Roma. Non come quella volta con la Samp, ora sarebbe stata solo una scelta personale. Ha tentennato e dubitato di sé, quando il Real gli spedì la maglia numero dieci con scritto Totti, un contratto miliardario e la penna con la quale mettere la firma. Un campione deve puntare al massimo e vincere un pallone d’oro dietro l’altro, ma anche il campione ha bisogno di una squadra. Quante volte se l’è sentito ripetere? Stava per firmare. Ma ha buttato la penna. Ed è ancora qui e ci starà per sempre.
Non è il capo della Roma, è solo il re di Roma. Non ha mai fatto guerra agli allenatori, neppure a Carlos Bianchi, che se la fece da solo. Neppure a Capello e a Galbiati, che non l’amavano di certo. E Franco Baldini, tre anni fa, per fargli capire che aria tirava gli dette del pigro. Tanto pigro da essere ancora il migliore giocatore italiano. Che cos’è Totti, un centravanti, un falso nove, un trequartista, un esterno? Totti è il giocatore più strano e completo di questa e altre epoche. Segna come un centravanti (intuizione di Zoff), suggerisce come un trequartista, sparisce come un falso nove, ruba palloni come un incontrista. Totti è immarcabile. Un fantasma. Lo cerchi e non lo trovi. Poi appare ed è tardi. Segna in ogni modo e fa segnare in ogni modo. Essendo più giocatori insieme, trasforma una squadra. La Roma di quest’anno è la Roma di Garcia, ma soprattutto la Roma di Totti. Ha un chiodo fisso: raggiungere Piola e fare il regista, come all’inizio della sua carriera, quando giocava i derby contro Nesta. Ha rifiutato di fare altri spot pubblicitari, di girare un film. Vuole pensare solo al pallone, con il quale continua a parlare come quando era bambino.
red.
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