(linkiesta.it - Luca Telese) «Un allenatore è anche un attore», spiegava Rudi Garcia in una vecchia intervista a L’Equipe che era stata saccheggiata alla notizia del suo ingaggio. Ma se bisogna dirla tutta sull’allenatore-guru che ha fissato il record di vittorie consecutive di tutti i tempi nel campionato italiano, al suo arrivo in Italia, nessuno scommetteva un centesimo. Soprattutto a Roma. È vero, aveva ottimi titoli e un’ottima fama, qualcuno azzardava che fosse il miglior allenatore francese, ma veniva dalla provincia del calcio, dal Lille e mica dal Paris Saint-Germain, aveva in fondo vinto soltanto una coppa e uno scudetto. Però nessuno sapeva pronunciare bene il suo nome, che andava accentato alla fine, alla francese, non all’inizio, alla spagnola.
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Rudi Garcia, che parla come Bergoglio e vince come Mou
(linkiesta.it – Luca Telese) «Un allenatore è anche un attore», spiegava Rudi Garcia in una vecchia intervista a L’Equipe che era stata saccheggiata alla notizia del suo ingaggio.
Nessuno immaginava che sarebbe stato personaggio come Mourinho, ma senza la prosopopea di Mou. E tutti ripetevano che era la terza scelta di mercato: che fino a un minuto prima, per esempio, si sperava nell’arrivo di Allegri dal Milan. Si era poi presentato con un gesto che sembrava una roba per mammolette, aveva telefonato uno per uno a tutti i giocatori prima del ritiro. Si raccontava che gestisse lo spogliatoio con una specie di consiglio di saggi in cui erano coinvolti i giocatori più rappresentativi. «Non una cooperativa ma un Consiglio di amministrazione», spiegava Beppe di Corrado sul Foglio.
Figlio d’arte (suo padre José Garcia era stato calciatore) chiamato Rudi in onore del ciclista tedesco Rudi Altig. È di origini spagnole, anzi andaluse, e nessuno, almeno in Italia lo ricordava come calciatore, visto che aveva chiuso la carriera prestissimo, per problemi alla schiena, dopo essere stato negli ultimi anni un allenatore in campo. Per anni preparatore atletico, ma - attenzione - anche bordocampista per una tv satellitare Arrivava in una squadra disastrata dalla guerra tra i due principali dirigenti, coi tifosi depressi, divisa tra nostalgici zemaniani e antizemaniani, con uno spogliatoio a pezzi, con "Ddr" Daniele De Rossi che era uscito fuori rosa cacciato con vergogna da Zeman per le sue prestazioni da zombie. E non era partito bene, subito messo nel mirino, perché accusato di aver accettato la vendita dei due super gioielli individualistici: Osvaldo e Lamela.
Si dicevano sacco di cose, quest’estate, tutte risultate clamorosamente sbagliate: questo è un buon preparatore, più che un vero allenatore, non ha carisma, non saprà cosa farsene di Francesco Totti, subisce la svendita dei campioni imposta dalla società. Ha preso Maicon che è vecchio e rotto. In questa estate una star giallorossa come Antonello Venditti proclamava solennemente che per protesta avrebbe chiesto il ritiro del suo inno “Roma Roma Roma” dal rito del coro pre-partita nello stadio perché deluso. E sulle pagine romane infuriavano le polemiche sul fatto che la società dopo quasi novant’anni aveva deciso di ridisegnare lo storico simbolo modificando il profilo della lupa e cancellando la vecchia denominazione Asr , per scrivere più grande Roma. A fine mercato, dopo tante dicerie, lui si assume la responsabilità di tutto, così: «Non c’è un solo acquisto che non sia stato approvato da me».
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