rassegna stampa roma

Roma, la storia parla straniero

(Corriere dello Sport – R.Maida) Benvenuta As Roma, benvenuto mister Garbutt. Lo chiamavano così, mister, il primo alle­natore della squadra appena nata, perché il signore era inglese. Da quel giorno la parola mister è stata associata a...

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(Corriere dello Sport - R.Maida) Benvenuta As Roma, benvenuto misterGarbutt.Lo chiamavano così, mister, il primo alle­natore della squadra appena nata, perché il signore era inglese. Da quel giorno la parola mister è stata associata a tutti coloro che, anche solo per scherzo, hanno allenato una squadra di pallone.

William Gar­butt era una specie di profeta, un innovatore, perché rispetto alle disordinate abitudini italiane del primo dopoguerra insegnava calcio per la­voro. Un manager ante litteram, ca­pace di acquistare e vendere giocato­ri, di spiegare la preparazione fisica e tattica. Aveva vinto tre scudetti con il Genoa e nel 1927 accettò la sfida di una società nuova, la Roma appunto, regalandole in un biennio la Coppa Coni, un piccolo titolo di allora.

LA STIRPE -E’ stato l’inizio di un funzionale sodalizio tra la Roma e i tecnici stranieri. Che pur essendo in minoranza, ventitré contro trenta, con una ricca co­lonia ungherese, hanno saputo vincere molto di più. E’ un incoraggiamento e una responsabilità per Luis Enrique. Con uno straniero in pan­china sono arrivati dieci trofei, tra cui due scudetti e la Coppa delle Fie­re, con un italiano soltanto sei. E se non fosse stato per il recentissimo ci­clo Spalletti, il contributo italiano sa­rebbe stato dimezzato.

TRICOLORE -A Spalletti lo scudetto è sfuggito per mezz’ora, ad Alfred Schaffer invece no. Siamo nel 1941/42, in piena guerra. Schaffer è un cittadino mitteleuropeo: di et­nia ungherese, nato a Bratislava, che oggi è la capi­tale della Slovacchia ma all’epoca faceva parte del­ll’impero asburgico, ha studiato alla scuola magiara del pallone, fino a raggiungere la panchina della na­zionale. Il presidente Igino Betti si affida a lui nel 1940, sperando finalmente di vincere dopo gli orgogliosi e inutili sforzi del­la Roma di Testaccio. Dopo una Cop­pa Italia persa in finale, nell’estate 1941 Schaffer al nuovo patron Edgar­do Bazzini chiede di acquistare solo due giocatori: la mezzala Cappellini del Napoli e il difensore Mornese del Novara.«Così arriveremo lontano». Ha ragione. Con Masetti e Amadei, il 14 giugno 1942 è scudetto, grazie al 2-0 contro il Mo­dena, nello stadio del partito nazionale fascista, l’odierno Flaminio. Schaffer lascia Roma subito do­po. Morirà tre anni più tardi, ucciso dalle armi.

EUROPA! -Anche la felicità europea si deve a uno straniero. La Roma la raggiunge l’11 ottobre 1961, davanti ai 50.000 tifosi dello stadio Olimpico. Fina­le di ritorno di Coppa delle Fiere, la progenitrice della Coppa Uefa, contro il Birmingham. Argentino è l’arbitro, Brozzi, proprio come l’ex medico socia­le; argentino è il centravanti, Pedro Manfredini che all’andata ha segnato due gol (2-2); argentino è an­che l’allenatore, Luis Carniglia, già bicampione d’Europa sulla panchina del Real Madrid. La Roma vince 2-0 (autorete di Farmer, raddoppio di Pestrin) conquistando il primo titolo internazionale della sua vita. Purtroppo, escluso il trofeo Anglo-Italiano del 1972 vinto sotto la guida di un altro grande stranie­ro, Helenio Herrera, non ce ne saranno altri. La Coppa delle Fiere, peraltro, merita una precisazio­ne. Essendo stata giocata a cavallo di due stagioni, non ha soltanto il marchio di Carni­glia. Ma anche quello di Alfredo Fo­ni, l’allenatore del 1960/61, che ave­va condotto in finale la squadra eli­minando Union Saint-Gilloise, Colo­nia e Hibernian. Il primo, insomma, è un successo italo-argentino.

E ANCORA... -E come dimenticare la Coppa Italia? Per i tifosi della Roma, di per sé, scatena sentimenti esterofili. Sei su nove coccarde sono state portate da stranieri. La prima, nel 1964, è addirittura frutto di una fortunata suc­cessioneispano-argentina: prima Joan Mirò, spa­gnolo come Luis Enrique, poi Juan Carlos Lorenzo.In seguito l’onore di portare la Roma in Coppa delle Coppe tocca a Herre­ra, tre mesi dopo la tragedia di Giu­liano Taccola; a un giovanissimo Sven Goran Eriksson, che nel 1986 addolcisce con la Coppa Italia la de­lusione per uno scudetto buttato (Ro­ma- Lecce 2-3); e ovviamente, tre vol­te a Nils Liedholm.

IL BARONE E GLI ALTRI -Liedholm, un po’ svedese e un po’ piemontese, è un pezzo decisivo del puzzle della Roma, di cui rimane l’allenatore più titolato e longe­vo. La guida in dodici stagioni complessive, divise in quattro periodi diversi, vincendo lo splendido scu­detto 1982/83 e arrivando a un passo dal tetto d’Eu­ropa, nella maledetta finale di Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984, persa all’Olimpi­co ai rigori contro il Liverpool. Soc­corre la Roma pure in uno dei suoi campionati peggiori, il 1996/97, quando ha già 74 anni, chiamato da Franco Sensi a rimediare agli imba­razzi di Carlos Bianchi, che con lo spogliatoio ostile sta scivolando peri­colosamente verso la bassa classifi­ca. Liedholm, aiutato da Ezio Sella, riesce ad evitare la serie B. E a gettare le basi per il lavoro di Zdenek Zeman, genio integralista ceco, spettacolare e ribelle, idealista e incompiuto. Saran­no due anni eccitanti per la Roma. Tornando a Bian­chi, presentatosi come argentino campione del mon­do con il Velez e oggi direttore tecnico del Boca Ju­niors, ha resistito pochi mesi a Roma ma ha rischia­to di essere ricordato per un tentato sfregio: voleva mandare via un giovane campione, Francesco Tot­ti. A questo allenatore, anche se straniero, Luis En­rique farebbe bene a non ispirarsi.