rassegna stampa roma

Ribellarsi al karma cialtrone ecco perchè difendo Luis Enrique

(repubblica.it – C. Bonini) – Mi piacerebbe continuare qui, ora, la furibonda discussione che da ieri pomeriggio ho ingaggiato con ammalati terminali ed eterni bambini come me, su “esterni bassi”, “centrali immobili”, punte che...

Redazione

(repubblica.it - C. Bonini) - Mi piacerebbe continuare qui, ora, la furibonda discussione che da ieri pomeriggio ho ingaggiato con ammalati terminali ed eterni bambini come me, su “esterni bassi”, “centrali immobili”, punte che hanno dimenticato che nel calcio sarebbe anche utile tirare in porta.

E mi piacerebbe farlo in Spagnoliano (o Itagnolo, se preferite), lo splendido e coraggioso gergo di Luis Enrique. O con la sublime ironia del blog “Kansas City 1927”. Voglio dire che per difendere l’asturiano ci si potrebbe rifugiare nei “fescennini”, o persino restare dentro il perimetro degli argomenti degli addetti e interrogarsi, magari, se il problema è lo spartito o sono i suonatori. Ma penso che farei un torto alla verità. Perché lo psicodramma della “As Roma” e dei suoi tifosi con il calcio c’entra, ma solo in parte. La dico in due parole. Difendo Luis Enrique, perché ho sempre detestato la Roma che manda al rogo gli eretici tra gli schiamazzi della suburra. Salvo fargli delle statue con qualche ritardo sulla storia.

Difendo Luis Enrique perché non sopporto la furbizia cialtrona che perdona al beniamino dell’arena quello che non perdona alla plebe (caso Osvaldo/Lamela). Per capirsi, quell’etica variabile del «dipende» o dell’«embé?», del «così fan tutti», del «mo’ s’aggiustamo», per cui il mondo e la vittoria sono dei furbi e dei potenti, la sconfitta di quei poveri fessi degli «uomini di principio».«Talebano», dicono ora. Spaventati per essere inciampati in un tipo che crede in quello che fa, «raro come un perro verde», raro come un cane verde (per dirla con la stampa spagnola). Terrorizzati dalla verità e da una parola: «Associativo». Aggettivo ignoto al calcio dei nostri lidi, ai suoi spogliatoi viziati, persino ai cortili delle scuole e delle parrocchie, dove si gioca a palletta e genitori vocianti se la prendono «cor mister». E così, nel “dajè ar cane che affoga”, i cannibali di Roma fanno l’unica cosa che sanno fare. Divorare se stessi. Li vedo. Sono gli stessi di «st’americani nun esistono», anzi «esistono ma nun c’hanno i sordi», «co’ Adriano (110 kg.) se vince lo scudetto», «Osvaldo è un brocco» (dopo la prima di campionato). E che tra una settimana, un mese, un anno, saranno genuflessi a baciare la pantofola.Si dirà: è la storia di Roma. La sua maledizione e la sua grandezza. La ragione per cui sono stati masticati e digeriti Papi e Re. Per questo difendo Luis Enrique. Perché nel ribellarsi al proprio destino e a un karma cialtrone, c’è una grandezza.