(Il Messaggero - Calcio&Pepe di R.Renga) In Italia si gioca in modo penoso. Dicono che sia colpa della tensione, della pressione e dell’eccessiva importanza del risultato.
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Nessuno prova a puntare sul gioco
(Il Messaggero – Calcio&Pepe di R.Renga) In Italia si gioca in modo penoso. Dicono che sia colpa della tensione, della pressione e dell’eccessiva importanza del risultato.
Votiamo per un’altra risposta: ci si affida più ai calciatori che al gioco. Non è un caso che a deludere siano in particolare le grandi squadre, espressione di società nobili e benestanti. Le piccole si arrangiano, studiano, ci provano almeno. Poi magari, essendo abissale la distanza tra ricchi e poveri, perdono lo stesso, perché i calciatori, in questo sport, hanno la loro ovvia importanza. Prendiamo l’Inter di sabato. Il Bologna ha giocato meglio, però l’Inter conta su Eto’o, che non ha nulla di normale, come Ibrahimovic.
E così l’Inter, aiutata da uno dei tanti gol irregolari realizzati nell’ultimo turno, ha finito addirittura per largheggiare. Assistiamo inerti alla beatificazione di Leonardo: i giocatori rotti guariscono e si grida al miracolo, l’Inter attacca e il cronista di bordocampo esulta: Leonardo ha detto ai suoi “Forza, dai!”. Sono elogi che fanno male soprattutto a Leonardo, che in realtà ha atteso il ritorno di giocatori in precedenza sazi e stressati e ha sostituito sorridendo un tecnico che l’ambiente non sopportava. L’Inter è viva e lanciatissima, ma il gioco per ora è un’altra cosa.
Il Milan nelle ultime quattro partite ha preso tre punti immeritati a Cagliari, ha pareggiato con Udinese e Lecce, ha perso con la Roma. Si è bloccato, insomma, un meccanismo che aveva incuriosito. Succede che anche Allegri, avendo scoperto la qualità di Ibra, si affidi al suo fuoriclasse: più comodo, indubbiamente. Ibra segna gol memorabili, ma più di uno a partita non ne fa e spesso non basta. Il Napoli incanta per dedizione, corsa, intensità e sacrificio: doti antiche e riscoperte del classico calcio all’italiana. Così, quando cala la forza fisica, cala anche il sipario. La Lazio interpreta il calcio come chi va alla scuola di tango: ritmo basso e luci soffuse, poi qualcosa succede.
La Roma ha solisti splendidi, che nel loro splendore si specchiano, dimenticandosi di passare la palla: squadra sotto l’effetto di narcisismo acuto e di una rara predisposizione alla ribellione. E qui ha ragione Ranieri: datevi una calmata o non si va da nessuna parte.
La Juve infine si trova al primo anno di un nuovo e stimolante corso universitario: l’idea di partenza è buona, qualche valutazione no e gli infortuni non le danno respiro. Ha anima, carattere, voglia e Del Piero. Gioco, mica tanto. La conseguenza di ciò che s’è detto è palese: si sono espresse meglio Bologna, Lecce, Cesena e Bari, che però, tutte insieme, hanno racimolato appena un punto. A proposito di calcio malato: cinque gol in fuorigioco sono troppi perché il presidente Nicchi se ne liberi come si fa con una mosca fastidiosa. Passi (passiamo, appunto) quando si sbaglia di centimetri, ma non sono accettabili disguidi di metri (Cagliari), di posizionamento (Lazio), ripetuti (Roma). Sembra che il via libera all’errore minimo abbia offerto ai guardalinee l’alibi per commettere errori massimi. Dai una mano e si prendono il braccio.
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