rassegna stampa roma

Menez, siamo ai titoli di coda

(Il Romanista – D.Galli) – Ormai non è più un caso. È di più. È la fine, forse. Ed è un peccato. Da una parte c’è Menez, dall’altra la Roma. Ieri Montali glielo ha detto chiaro e tondo: l’indolenza non paga, certi...

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(Il Romanista - D.Galli) - Ormai non è più un caso. È di più. È la fine, forse. Ed è un peccato. Da una parte c’è Menez, dall’altra la Roma. Ieri Montali glielo ha detto chiaro e tondo: l’indolenza non paga, certi atteggiamenti non saranno più tollerati.

Menez si è scusato. «Sono dispiaciuto», ha fatto sapere. Potrebbe non essere sufficiente. San Siro, mercoledì notte, i giocatori sono appena usciti sconfitti - perché il pareggio questo è stato: una sconfitta - e la Roma non si interroga. Fa qualcosa di più. S’incazza. Nello spogliatoio il confronto è aspro. Salgono i toni. Perché il penultimo grande traguardo di stagione se n’è andato, perché la Roma invece ci credeva, perché ormai non ci resta che battere il Catania, spedire in B la Samp e arrivare davanti alla Lazio per dare un senso alla stagione. Un senso minimo, perché questa squadra un anno fa lottava per lo scudetto. Menez non ha più scuse. Specie per i suoi compagni. Che nello spogliatoio milanese lo riprendono. C’è un’immagine che resterà scolpita nella memoria di chi stava davanti alla tv e di chi giocava. Racconta bene la semifinale di Menez. Borriello spedisce la palla nel tunnel, Jeremy resta fermo. Immobile. Una statua. La palla sfila via e finisce tra i piedi dei difensori nerazzurri. Borriello s’infuria, la Roma è al capolinea, Menez pure. Con una differenza sostanziale. Nel caso della Roma, il treno è destinato a ripartire. Mentre per il fantasista francese c’è il rischio che sia davvero l’ultima fermata. Ieri, Trigoria. Montali parlotta con Menez. Il direttore è duro, ma c’è una ragione. Montali ha sempre creduto nel talento. È un uomo tutto d’un pezzo, ma si scioglie di fronte ai campioni. A tutto c’è però un limite. Non si può far finta di niente, non è possibile chiudere entrambi gli occhi oppure ignorare il confronto della sera prima nello spogliatoio di Milano. Il direttore avverte il francese. Basta con la svogliatezza, in allenamento e fuori, oppure la società prenderà provvedimenti. La misura è colma, la pazienza terminata, la Roma stufa. Se fosse dipeso da Menez, sarebbe già altrove. Gli resta un anno di contratto, ma preme per essere ceduto. Vuole l’Inghilterra, Liverpool o Manchester United se possibile. A Ferguson piaceva, ma quando Jeremy non era ancora pronto per l’Old Trafford. Aveva 17 anni e tutta la vita davanti. E davanti invece gli si è presentata, quattro anni più tardi, una squadra che valeva e che vale lo United, almeno per noi. La Roma. Jeremy ha detto di sì, ha pennellato magie a fasi alterne, è stato a tanto così dal conquistare tutto. Ranieri, la Sud, la Roma. Poi se n’è andato Ranieri e se n’è andato pure lui. Pure Menez. Non fisicamente: col cuore. Eppure, bastava quello. Bastava il cuore per avere ancora accanto la Sud e la Roma. Tutto. Bastava chiamarsi Burdisso. «Non si gioca come ci si allena», disse una volta Nicolas, «si gioca come si vive». Si gioca come Burdisso.