(Il Romanista - M.Macedonio) - E’ in sala di registrazione, Antonello Venditti. A novembre uscirà il suo prossimo album, ma nelle pause che gli restano durante la giornata trova il tempo per tornare con la mente a dieci anni fa.
rassegna stampa roma
«Una giornata in paradiso, una notte di troppo amore»
(Il Romanista – M.Macedonio) – E’ in sala di registrazione, Antonello Venditti. A novembre uscirà il suo prossimo album, ma nelle pause che gli restano durante la giornata trova il tempo per tornare con la mente a dieci anni fa.
«Il ricordo di quel 2001? Innanzitutto, la fortuna di aver vissuto un altro scudetto della Roma. Dopo quello dell’82/83, che resta per me un titolo “storico”, perché quello della “mia” generazione, con Dino Viola, Falcao e tutti gli straordinari interpreti di quella stagione. Quello del 2001 è invece lo scudetto di una nuova Roma, quella della famiglia Sensi: la Roma quotata in Borsa e che si è costruita a spallate, contro tutto e tutti. Anche Viola l’aveva costruita un po’ in questo modo, ma il suo era ancora un altro calcio, con due stranieri per squadra e molte più limitazioni di oggi. Con le rose che non erano così ampie e dovevi indovinare da subito la squadra titolare ».
Come vivesti quel 17 giugno?
Più che il giorno dello scudetto, mi torna in mente la presentazione della squadra. O meglio, dei giocatori che arrivarono quell’anno. Penso a Batistuta, con tutta quella gente accorsa all’Olimpico, o a Samuel. Così come ricordo l’infortunio di Emerson, che venne a un mio concerto a Tor di Valle. E soprattutto, ricordo Nils Liedholm, un uomo che per me è stato tra i più grandi competenti di calcio al mondo, chiamato anche lui ad affiancare la dirigenza di quella nuova Roma. Capivi così che nell’aria c’era l’aspettativa, anzi la certezza che quella Roma, con quei grandi giocatori, ma anche con i Mangone, i Rinaldi e i Lupatelli, avrebbe fatto non bene, benissimo. Liedholm, cui chiesi preoccupato se l’assenza di Antonioli, fuori per infortunio in alcune partite, potesse pesare, mi rispose: “Con questo centrocampo, gli altri non tirano mai in porta”. E in effetti, avevamo quell’anno una squadra fortissima in mezzo al campo. Da Tommasi a Cristiano Zanetti, e poi Nakata, fecero tutti una stagione pazzesca. E ci metto dentro anche i giocatori come Guigou, che dette la palla a Batistuta in quel Roma-Fiorentina vinto solo a poco dalla fine con quel suo gol che non festeggiò. Una squadra in cui tutti, dal primo all’ultimo, hanno dato il proprio contributo. Perché era cambiato il vento e c’era una voglia di vincere, anche da parte di noi tifosi, che non aveva precedenti. Anche perché la Lazio aveva vinto l’anno prima e fu anzi proprio questo che spinse Sensi a dare veramente tutto. Di cuore e anche di borsa. Penso anche all’apertura di Roma channel (nel settembre del 2000, ndr), un altro segno della voglia di investire. Una Roma, che dopo essere passata da Mazzone a Carlos Bianchi e a Zeman – perché non dimentichiamo che il vero inizio di tutto fu quando, pochi mesi dopo l’acquisto insieme a Mezzaroma, Franco Sensi, figlio a sua volta di un grande romanista, decise di restare da solo, creando grandi speranze nei tifosi - nasceva allora come Roma del futuro, quella con tutti i presupposti per vincere e che è arrivata fino ad oggi. Con DiBenedetto mi auguro che ci sia un’ulteriore evoluzione. Guardo con fiducia a lui ma soprattutto ad un persona che conosciamo molto bene, avendola già avuta a Trigoria, ovvero Franco Baldini. E mi sento di dire che le emozioni, sia pure con meno certezze, sono di nuovo quelle di allora.
Cosa fu decisivo in quegli anni?
In quel caso, fu il passaggio da Zeman a Capello a darci la misura che si poteva vincere, anche se il primo anno con lui arrivammo sesti. Ma il secondo, magari non da subito, capimmo, domenica dopo domenica, che quel sogno poteva avverarsi. Ci tengo a dire che sono stato, e sono, amico di tutti gli allenatori che ha avuto la Roma. Lo sono di Zeman, di Capello, di Spalletti e, soprattutto, di Ranieri. Così come spero di esserlo di Montella e, mi auguro, anche di Luis Enrique. Anche se sarà forse un po’ più difficile. Perché, in questo caso, essere amico non è richiesto. Credo anzi che per la Roma sia un bene essere tornata a scegliere uno straniero. Troppe confidenze, troppe commistioni, finora, tra giocatori e tecnico e i vari gruppi che si contendevano il potere in questa città, rischiavano di far male.
Cos’è che ti piace di Luis Enrique?
Mi piace perché è nuovo, ed è un jolly. Nel senso che non ha ancora una sua storia compiuta come allenatore. Si comincia invece una nuova storia, tutti insieme, e con un interprete che viene però dal Barca. Con un’idea di calcio che spero non sia quella di rifare il Barcellona, perché di Barcellona ce n’è uno solo, ma che di quella squadra può trasferire qui la mentalità. L’idea di un calcio che non sia drammatico, ma inteso come gioco. Per vincere, però. Un gioco positivo, quindi, e vincente. E aggiungo: quando una società è forte e i dirigenti lo sono altrettanto, tutto il resto viene dopo. DiBenedetto è stato chiaro: un progetto tecnico intorno ad una squadra, come pure intorno ad un’azienda, non nasce se non c’è una società fortissima. Come si suol dire, i giocatori passano, ma le società restano. E la Roma, spero, vi sarà anche tra cent’anni. Baldini e Sabatini mi ispirano grande fiducia, proprio per il loro essere persone competenti e decise. Che è quello che ci vuole. Credo in questa “rivoluzione culturale”. Che deve estendersi a tutto ciò che riguarda l’attività della Roma, anche in ambito sociale. Penso a un nuovo modo di concepire la vita tra i tifosi, ma anche la gestione del marchio e il rapporto con i cosiddetti poteri forti. E’ la prima esperienza in assoluto, nella storia della Roma ma anche del calcio italiano, quella di avere una proprietà straniera. Qualcosa che non era mai accaduto. E basti vedere con quale sospetto viene visto tutto questo. Mi piace anche questa discontinuità rispetto all’era Sensi. La leggo addirittura come una forma di rispetto per chi è venuto prima e ha già fatto la storia della Roma, almeno fino a oggi».
Una Roma che nasce nel segno del rinnovamento a tutti i livelli.
Il vento sta cambiando, ne abbiamo una riprova in tutta Italia, ed è normale che il cambiamento si avverta anche a questi livelli. La garanzia non è tanto Luis Enrique, quanto la società. Se guardiamo ancora indietro, va detto che Rosella è stata incredibile e ha dato davvero il massimo. Tutto quello che poteva dare l’ha dato. Dopo la morte di Franco, poteva accadere il disastro. E invece, non solo la Roma è rimasta competitiva, ma avrebbe potuto vincere lo scudetto almeno un paio di volte. Per questo dico che la Roma non deve pensare di non essere forte. Lo è già, e con qualche innesto potrà diventarlo ancora di più. Vedo più un problema ambientale, con i giocatori alle prese con l’insoddisfazione e l’insofferenza, rispetto alla società, ai compagni o all’ambiente stesso. Mi piace che gran parte della nuova Roma sarà composta da chi vorrà davvero starci. Mi dispiacerebbe che Vucinic andasse via, ma se è una sua volontà, è giusto che venga rispettata.
Torniamo a quel Roma-Parma del 17 giugno.
Ricordo anche la paura di quel giorno, quando ci fu l’invasione. Ero talmente incazzato, quando ho visto che la gente non usciva dal campo e potevamo perdere la partita a tavolino – se soltanto qualcuno avesse toccato le porte! – che non ce l’ho fatta più, per l’adrenalina e i nervi a pezzi, e sono andato via. Ho seguito tutto il resto in macchina, ascoltando la radio. E’ stata una delle sensazioni più brutte della mia vita perché poteva svanire in un attimo quello che avevamo costruito in un anno perfetto. E la festa finale l’ho rivista nei filmati, almeno mille volte.
Una settimana dopo, il 24 maggio di quel 2001, il tuo concerto davanti a più di un milione e ottocentomila persone.
Forse i tifosi della Roma cominciano a capirlo solo oggi. Perché fare una cosa di quel livello, è difficilissimo. Una delle cose più invidiate da tutti gli altri, oltre le canzoni, è proprio il Circo Massimo. Perché nessuna squadra al mondo ha avuto quello che ha avuto la Roma. Per merito dei suoi tifosi, naturalmente. Una giornata memorabile, quella, anche se qualcuno solo oggi inizia ad apprezzare una delle canzoni più belle che ho scritto, “Che c’è”. E che voleva solo essere un atto d’amore verso una città e una squadra. Ci fu addirittura chi mi rimproverò di aver voluto scrivere un nuovo inno, quando questo c’era già. Ma, avendoli scritti io, “Roma, Roma, Roma” e “Grazie Roma”, va da sé che sarebbe stato stupido farmi concorrenza da solo. Quella domenica, invece, voleva esserci solo gioia. Basti pensare alle parole: “L’aria è più leggera come se / tutto l’amore che cercavi adesso c’è / e non ti manca niente al mondo”. Perché lo scudetto della Roma è uno dei pochi momenti di felicità totale che un tifoso, meglio, un uomo, una donna, un bambino, un vecchio, può avere. Come dire una giornata in paradiso. Una cosa di una portata celestiale. E io spero di viverne presto un altro.
Ricordo la tua amarezza per le polemiche di quei giorni.
I ragazzi più giovani non potevano sapere che il Circo Massimo l’avevo già fatto una volta. E che anche allora era stato un gesto d’amore verso di loro. E non strettamente per la squadra. Che non era neanche necessaria. Perché quell’evento l’avevo programmato da tempo. Il Circo Massimo, non tutti lo sanno, almeno allora andava prenotato con molto anticipo. Così come la canzone, “Che c’è”, non l’avevo certo scritta il giorno prima. In quei casi devi essere straconvinto e avere fede, sennò poi la delusione è tremenda. Prenotai quindi il Circo Massimo, superando problemi di ogni tipo, anche burocratici, perché – a differenza di oggi – la Soprintendenza ai beni archeologici non era tenera a quei tempi. Quando il presidente Sensi seppe che avrei fatto il concerto mi disse anche “Guarda che noi veniamo, se vinciamo”. Una promessa mantenuta. Qualcuno si lamentò che vi fossero pochi giocatori C’era chi voleva esserci. Non ho mai fatto gli inviti, perché è stato sempre così. Basti dire che avevamo predisposto un “parterre de roi”, che venne però spazzato via in un attimo. E tutti quelli che dovevano essere lì, me li ritrovai sul palco, dove eravamo in seicento. Ricordo il lavoro intorno alla scaletta, con Sabrina, Corrado Guzzanti, Nicola Piovani, Carlo Verdone. Sapendo quando avremmo cominciato ma non quando avremmo finito. Ripenso ai rischi corsi. Con tutti quelli arrampicati sulla chiesa o abbarbicati un po’ dovunque. E se si tiene conto che con un milione e ottocento mila persone ci poteva scappare il morto, e invece non è successo nulla, è quasi un miracolo. E la responsabilità di tutto, nel bene e nel male, è stata solo mia. Ci sono quindi rimasto un male, nei giorni successivi, quando ho sentito venir fuori tante polemiche da parte di questo o quello. Invidie e gelosie che non mi appartengono. E’ stato come trovarmi di fronte un mondo che, forse giustamente, pensava di aver vinto solo lui lo scudetto. Io quello lo giudico “troppo amore” e ammetto che, a volte, anche io sono stato travolto da questo stato d’animo. Ci fu anche chi criticò gli appelli contro il razzismo, con tanto di fazzoletti bianchi. Non dimentichiamoci che spesso la politica si è mischiata a tutto questo. Oggi mi sembra che le cose vadano meglio. Tutti si deve tornare ad essere innanzitutto tifosi della Roma, al di là di come la si pensi. Almeno allo stadio. L’unità della curva e, nello stesso tempo, la sua libertà nei confronti di tutti, è importante.
Le parole di quella tua canzone dicevano anche: “E’ ritornato il sole dentro me e l’aria è più leggera”. Possono essere associate anche alla nuova Roma?
Spero. Anche se siamo stati abituati troppo bene. E ce ne ricordiamo sempre dopo. Vediamo adesso come si muoverà la società. Forse, dobbiamo ricominciare tutti a giocare. Cercando un modo nuovo di concepire il calcio. Perché altrimenti, così come nel Paese, improvvisamente si rischia un crollo. E se non si ragiona pensando al futuro, ci si ritrova in un baratro. La Roma è la prima società a farlo. Non solo in Italia, ma anche all’estero. Penso al fair play finanziario, che può essere un’altra spada di Damocle se non lo si affronta in tempo, ma non solo. Penso ai ragazzi da riportare allo stadio, perché ormai non ci vanno più. Proprio in quell’anno dello scudetto 2001, la Roma aveva 46 mila abbonati, oggi meno della metà. E’ gravissimo. “Rivoluzione culturale” vuol dire anche avere un nuovo rapporto con i tifosi. E, come dice quella canzone, far tornare il sole dentro di loro.
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