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Luis Enrique non rischia. Ma Roma teme spaccature

(Corriere della Sera – L.Valdiserri) – Quasi centomila spettatori per due partite non certo di cartello come quelle contro lo Slovan Bratislava e il Cagliari. E la reazione composta e matura del pubblico dopo il secondo schiaffo preso.

Redazione

(Corriere della Sera - L.Valdiserri) - Quasi centomila spettatori per due partite non certo di cartello come quelle contro lo Slovan Bratislava e il Cagliari. E la reazione composta e matura del pubblico dopo il secondo schiaffo preso.

Fuori dall'Europa League e sconfitti alla prima di campionato dopo 19 anni. Walter Sabatini, nella sua prima conferenza stampa, aveva chiesto «complicità» ai tifosi romanisti. Non «pazienza», perché al direttore sportivo (e per quel poco che conta anche a chi scrive) è una parola che mette una gran tristezza. E la «complicità» è stata concessa a piene mani visto che, quando si aspettavano i fischi, a fine gara, sono arrivati invece alcuni applausi di incoraggiamento. È da questa base che la Roma deve ripartire. Da questo tesoretto di fiducia, speranza e fede forse anche esagerata che non deve però essere sprecato. Si può chiedere al tifoso di credere in un progetto, anche a lunga distanza, ma è impossibile pensare che smetta di guardare la classifica. Il rischio della Roma, il rischio di Roma verrebbe da dire, è sintetizzabile con il titolo di un famoso film: la scelta di Sophie. Stare con Totti o con Luis Enrique? Tifare per il calcio all'italiana o per la voglia di un calcio nuovo e diverso? Accettare un ridimensionamento temporaneo per innescare una crescita poi duratura o chiedere tutto e subito? Il timore di spaccare la città in due, in caso di un altro paio di risultati negativi, è tangibile.

Luis Enrique è saldissimo in panchina, visto che su di lui ha puntato l'uomo (Franco Baldini) che è stato messo al centro sportivo dell'operazione Roma da parte della cordata bostoniana. Ma questo non significa che non corra anche lui i suoi rischi che, nel caso specifico, non sono perdere la panchina ma perdere il contatto con la realtà nella quale vive. Sarebbe moralmente ingiusto e deontologicamente scorretto processare Luis Enrique per due sconfitte e un pareggio nelle prime tre partite, anche se gli avversari sembravano fatti su misura per una partenza sprint. L'asturiano è stato scelto per «dare discontinuità con il passato», come ci è stato detto. In questi primi due mesi di Roma lo ha sicuramente fatto. Magari per qualcuno, anche dentro le stanze di Trigoria, lo ha fatto pure troppo. Ma come si devono prendere le cose buone di José Angel (il migliore in campo per un'ora contro il Cagliari) ma anche le ingenuità di un difensore di 22 anni, così bisogna «comperare» tutto il pacchetto di Luis Enrique. «La mia idea di calcio è quella che mi ha portato alla Roma - ha detto l'allenatore domenica sera - e non la cambierò per due sconfitte».

È giusto così. Lo facesse perderebbe la faccia davanti ai suoi giocatori e a chi lo ha incaricato di ricostruire una nuova Roma. Le idee vanno difese senza paura e senza rimpianti, ma quando diventano dogmi perdono la loro forza. Non è semplice trovare il giusto registro, tanto più quando, come accade a Luis Enrique, si è alla prima vera esperienza con una squadra di «grandi» e tanto più in un Paese straniero. Capire che l'elasticità non è una debolezza, ma un'arma in più, è comunque necessario. E tra i dirigenti giallorossi c'è chi lo ha già detto a Luis Enrique, senza per questo mettere in discussione la sua libertà di scelta e di azione. Detto questo, in attesa di Inter-Roma, c'è da mettere in chiaro un punto senza se e senza ma: la Roma non è di Luis Enrique e non è neppure di Totti. La Roma è della cordata bostoniana e di UniCredit, se si guarda il pacchetto azionario, ma è soprattutto dei suoi tifosi, senza i quali non esiste né passato né presente né futuro. Non esiste guerra di religione (calcistica) più importante del bene della squadra.