(La Repubblica - G. Romagnoli) Come in una tragedia mitologica, in cui il dominio del re è gravato da un vaticinio: “Ai tuoi piedi avrai uomini e città / finché dal nulla un ispanico verrà”.
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L’ispanica profezia e il grugno di Totti
(La Repubblica – G. Romagnoli) Come in una tragedia mitologica, in cui il dominio del re è gravato da un vaticinio: “Ai tuoi piedi avrai uomini e città / finché dal nulla un ispanico verrà”.
Così Francesco Totti vive l’avverarsi di un momento inevitabile che la sua psicologia traduce però come inatteso e, soprattutto, ingiusto. Eppur succede, e succede sempre: ora legale o ora solare a un certo punto si fa buio, due o tre atti ma poi il sipario cala, a 65 anni si va in pensione e, nel calcio, a 35 si gioca titolari quasi soltanto in porta. Ci sono eccezioni (Zanetti, Di Natale…), ma le decidono le condizioni fisiche, le necessità tattiche e, per quanto inaudito possa sembrare, gli allenatori che per questo sono pagati. Vallo a spiegare a Francesco Totti.
Se ne sta, ingrugnito, sull’ottavo colle di Roma. Gli unici momenti in cui prende le cose con ironia sono quelli in cui appare negli spot televisivi. Non parla se non attraverso le magliette. Un tempo sbeffeggiavano l’avversario (“Vi ho purgato ancora”), adesso esprimono stizza (“Basta!”). Non risponde al cellulare, guarda il numero sul display e fa una smorfia: ancora 0044, il prefisso inglese che segnala il portatile dell’odiato Franco Baldini.
Il dirigente che, lesa maestà, osò dirgli “pigro”. E pensare che appena due anni fa un personaggio chiave dello staff di Totti, il preparatore atletico Vito Scala, disse più o meno la stessa cosa: «Senza la sua pigrizia psicologica non avrebbe limiti». E non si aprì il cielo. Ma quello era uno scudiero. Questi altri sono i fantasmi incarnati della profezia, agenti di una congiura internazionale, venuti infatti da Inghilterra, Spagna e perfino Stati Uniti d’America per abbattere l’ultimo re di Roma. Non hanno storia e non la conoscono. Non hanno riconoscenza. E perché dovrebbero?
Per gente come Tom DiBenedetto uno come Totti appartiene all’esercito dei posteri: personaggi indistinti che per lui non hanno fatto niente. Ma che pretendono molto. Otto milioni e seicentomila euro per i prossimi due anni, a esser precisi. Più il rispetto di una scrittura privata firmata dalla precedente gestione che garantiva altri (cinque?) anni ben pagati come dirigente. Questa è la prosa dei fatti, anzi la matematica. Il resto è commedia. Ipocrita come ogni recitazione. L’allenatore dice che Totti è straordinario, ma un giocatore come gli altri. Il riesumato Osvaldo si presenta con attestazioni di stima e si prepara a sfilargli la maglia. Totti ascolta, guarda e s’incupisce. Se il paragone non l’offende (ma è quasi impossibile che non accada) sta ormai alla Roma come Emilio Fede al Tg4. Era amico del padrone, avevano fatto “grandi cose” insieme. Ha strangolato i possibili successori nella culla. È rimasto oltre l’età della pensione e della buona apparenza.
Il suo notiziario galleggia per inerzia. La Roma di Totti anche. Qualche volta sa ancora essere decisivo. Ma è anche vero che Spalletti fece una striscia vincente in sua assenza e Ranieri lo tolse per rimontare nel derby più importante l’anno del quasi scudetto. Totti è un campione. Non “è stato”. Lo è. Ha ancora la personalità, le giocate, il tiro. La rabbia, perfino, che lo innesca. Che cosa gli manca, allora? La lucidità e il coraggio di capire che tutto questo non basta.
È un 35enne italiano, esemplare perfetto di una generazione allevata in un contesto culturale in cui la vita, personale e professionale, viene immaginata come un percorso autogestito, in cui ogni intoppo è un’ingiustizia. E se anche fosse? Nell’americano pragmatismo di Tom DiBenedetto l’ingiustizia fa parte dell’esistenza: si commette e si subisce. Bisogna essere forti per sopraffare, ma ancor più forti per incassare. C’è un tempo per relegare Cassano e uno per essere relegati da Lamela, o chi per lui.
Soprattutto, c’è sempre un tempo (non due, ho detto uno) per reagire. Ci si può sedere ed aspettare (con 8,6 milioni in tasca) che quel tempo venga. Senza illudersi che la città intera lo invochi. Mezza, al massimo. E pare in calo. Ci sono alternative? Totti non è (e non può essere per via dell’ingaggio) Nesta, che dopo la gioventù laziale del “Non devo dimostrare niente a nessuno” è andato a Milano a dimostrare tutto.
Non è Beckham che sverna con Victoria al sole californiano: lui e Ilary in America si rifugerebbero in un ristorante italiano del Greenwich Village con le sporte dell’outlet.
Totti è Roma e non c’è profezia avverata che possa allontanarlo. Nel corso d’inglese che segue durante le pubblicità dovrebbe farsi spiegare la parola “mobbing”. E “how to survive”. Resistendo, aspettando, magari facendosi mancare di rispetto perché l’avversario perda la reputazione, ma soprattutto cogliendo l’occasione quando verrà: entrando e segnando o facendo segnare. A esserne capaci. Perché lì sta il bivio tra l’ingiustizia e il corso del tempo.
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