(Corriere dello Sport - R.Maida) L’angoscia, alternata ad applausi e fotogrammi di leggerezza, ai titoli di coda si cristallizza negli occhi lucidi e nelle riflessioni amare. Quando decollano le note che trasformano le domande senza risposta in empatia e impotenza.
rassegna stampa roma
L'indimenticabile romanzo di Ago
(Corriere dello Sport – R.Maida) L’angoscia, alternata ad applausi e fotogrammi di leggerezza, ai titoli di coda si cristallizza negli occhi lucidi e nelle riflessioni amare. Quando decollano le note che trasformano le domande senza...
LA STORIA - Forse è tutta qui, in queste parole semplici e romantiche dedicate da un cantante a un amico, la tragedia di Agostino Di Bartolomei, raccontata dal film-documentario di Francesco Del Grosso, «Undici metri», e proiettata all’Auditorium di Roma durante il festival del cinema. La biografia rispetta l’ordine cronologico e parte dagli inizi, da Tor Marancia e l’oratorio San Filippo Neri in cui la «bomba» di Ago, un tiro anormale nella sua potenza, si rivelò agli osservatori alla fine degli Anni Sessanta, quando l’Italia ancora credeva in un mondo migliore. Passa per lo scudetto e il doloroso addio alla Roma, subito dopo la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, per seguire Liedholm al Milan. E si conclude con il periodo vissuto guardando il mare del Cilento, il ritiro dopo la promozione in B lasciata in regalo alla Salernitana, l’allontanamento più o meno volontario dal calcio e una serie di progetti poco fortunati.
CORAGGIO - Nessuno saprà mai cosa sia scattato nella testa di quell’uomo che comunicava senza parlare, il 30 maggio del 1994. Dieci anni spaccati dopo la finale di Coppa dei Campioni persa con la Roma contro il Liverpool all’Olimpico. «La gente crede di sapere e interpreta» spiega amaro Franco Tancredi, compagno del secondo scudetto. L’unica certezza è che è scattato il grilletto di una pistola, l’arma che Di Bartolomei portava sempre con sé perché terrorizzato dalle minacce e dalle rapine, dritto contro il cuore. Ed è stata una scelta sua, di una persona che aveva il buio addosso a 39 anni. «Avevo due figli - ricorda nel film la moglie Marisa - ho dovuto tramutarmi in clown. Per aiutarli a sopportare il dolore senza allontanare mio marito ho voluto che fosse ricordato per le risate, per le cavolate che facevamo insieme. Penso di avere superato me stessa in quel periodo» .
UN GIORNO D’OVATTA - Non mosse un muscolo, Marisa, quel giorno di diciassette anni fa: «La sera prima Agostino aveva cucinato le sue specialità per parenti e amici. Magari era un po' più cupo del solito, ma non dava segni di alcun tipo» . La corazza di un uomo fragile e sensibile: «In parte ho dimenticato, rimosso, per mia fortuna. Dormivo. Ho sentito una cosa ovattata in lontananza, non so se fosse uno sparo, ma mi sono svegliata di soprassalto e sono andata alla finestra. Ho visto Agostino bianco, con una maglietta bianca, in una posa strana. Realizzare in un attimo cosa stessi vedendo non è stato possibile» . E' stato il figlio maggiore, Gianmarco Rinaldi, nato da una precedente relazione, a capire tutto. «Ho sentito le sue urla - continua Marisa - ma non riuscivo a rendermi conto di una realtà così cruda. Sono rimasta inebetita per non so quanto tempo, senza parole e senza lacrime, senza capire niente, pensando solo a Gianmarco e Luca» . Qui il dolore si mescola a quel tradimento di cui canta Venditti: «Mi sentivo colpevole e volevo giustificare un gesto folle agli occhi dei miei figli. Ma giustificare cosa? Non avevo fatto niente. Eppure questa sensazione è la cosa che più mi ha lacerato. Ero io che avevo bisogno per prima di risposte...» . Non le avrebbe avute mai. E’ questa la condanna infinita di chi perde un compagno suicida.
LA SCOSSA - E' stato il piccolo Luca, che aveva solo 11 anni e tornava da scuola, a scuotere la mamma: «Le sue grida hanno squarciato il cortile. Lui mi ha svegliato dal torpore mentre i carabinieri, chissà perché, mi prendevano le impronte digitali» . E Luca, che oggi ha lo stesso sguardo semplice e malinconico, racconta fiero il padre, che per tutto il film chiamerà Ago, come se Ago non fosse soltanto suo ma di tutti quelli che l’hanno amato: «C'è molto di lui in me. Era una persona che con i suoi silenzi, con la sua riservatezza, diceva tanto. Ago mi venne a svegliare, come sempre. Mi chiese di non andare a scuola, di accompagnarlo a Salerno. Dissi di no, che non potevo...» . Ma nel darsi una spiegazione, crede a un raptus: «Togliersi la vita è una cosa tanto stronza quanto imponderabile, richiede una determinazione che sconfina nella follia. Alla coincidenza con Roma-Liverpool ho sempre creduto relativamente. Credo a una serie di cause. Ago non ce l’ha fatta e l’ha scritto a mia madre nella sua ultima lettera, come per scusarsi» .
I DUBBI - Forse voleva tornare nel calcio, e all'amata Roma: scriveva spesso anche al presidente Sensi. Forse si era semplicemente spento, divorato dalla depressione. Forse, forse, forse. Ritornelli, ossessioni ipotetiche. Ma Luca ha già perdonato quello che è tremendamente sicuro e irrimediabile: «Per andare oltre agli ostacoli che incontra chiunque voglia inventare qualcosa di diverso, serve la forza. Ago ha fatto un gesto stupido. Ma incontrando mio padre e imparando da mia madre ho capito di avere una vita stupenda» .
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