(Il Romanista - M.Macedonio) - «Chi si esprime dicendo “Romanista ebreo”, ma anche chi rivolge cori razzisti verso Cissè, per me non è un tifoso. O meglio, non lo considero tale. E non sopporto che lo si chiami così».
rassegna stampa roma
«Chi fa cori razzisti non è tifoso»
(Il Romanista – M.Macedonio) – «Chi si esprime dicendo “Romanista ebreo”, ma anche chi rivolge cori razzisti verso Cissè, per me non è un tifoso. O meglio, non lo considero tale. E non sopporto che lo si chiami così».
Per Luca Di Bartolomei, il figlio di Agostino, quella contro l’intolleranza e il razzismo è una battaglia di civiltà che va condotta, oggi più che mai, dopo che per anni si è lasciato che tanti gruppi, organizzati a vario titolo e scopo, trovassero legittimazione all’interno dello stadio, troppo a lungo inteso come luogo di “sfogo”. Si scalda, Luca, perché l’argomento lo tocca profondamente, ma mai perdendo quel tono fermo e, insieme, pacato. Anche quando trova analogie con quanto accade fuori dallo stadio, a cominciare dagli episodi di violenza che hanno messo a ferro e fuoco Roma sabato scorso. «Giusto domenica, poco prima che iniziasse la partita – racconta - stavo pubblicando su Facebook un ricordo di quella che fu, proprio il 16 ottobre, nel 1943, la deportazione dei 1024 ebrei dal ghetto romano. Ed è chiaro che quel “romanista ebreo”, dove “ebreo” è usato come insulto, mi fa dire che si dovrebbe studiare molto di più nelle scuole. E che questo potrebbe essere il primo antidoto ad una ignoranza, che non è quella dovuta a scarsità di mezzi, ma che definirei volontaria. E’ vero, lo ripetiamo da tanto, ma trovo che vada detto in maniera sempre più chiara. A me irrita molto anche il sentirli chiamare “tifosi”. Perché quelli non sono tifosi. Quella è gente di merda. Che sta in una curva, così come può stare in un’altra, e che è accomunata, purtroppo, da un’idea dello stadio come luogo in cui portare gruppi organizzati per far sentire la loro forza. Penso anche a ciò che è successo a Roma sabato scorso, dove, non a caso, erano presenti anche gruppi che ritroviamo nelle stesse curve. Gruppi che sono assolutamente vicini gli uni agli altri, non per il colore delle squadre, visto che poco conta, non essendo tifosi. Non vanno allo stadio con una maglia perché rappresenta la loro fede. Vanno lì solo perché devono mostrare la forza della propria organizzazione e lo fanno, appunto, indossando una maglia. Ma essere tifosi è tutta un’altra cosa».
Qualcosa che sembra riguardare non solo questa città, ma anche tante altre in questo Paese.
Ripeto: bisogna togliere legittimazione all’idea che questo sia tifo. Questi sono teppisti. Che possono avere la maglia della Lazio, ma anche quella della Roma, e di qualsiasi altra squadra. Non dimentichiamo che già negli anni passati, ma in parte vale ancora oggi, sono stati utilizzati da una certa politica, e anche da certe presidenze – sia chiaro, in tutta Italia – per portare acqua al proprio mulino. Perché nel caso del ragazzo che lancia un singolo coro, si può forse parlare di ignoranza specifica. Ma, in generale, esiste la strumentalizzazione da parte di qualcuno che fa sì che un centinaio di ragazzi e ragazzini - ed è questo che spaventa di più - possa dar luogo a situazioni come quelle che abbiamo vissuto. Anche molte delle devastazioni di sabato, al di là dell’area politica di appartenenza, avevano per protagonisti dei minorenni.
C’è quasi un filo rosso che sembra legare gli episodi che hanno visto, in un caso, rovinare le ragioni di una manifestazione pacifica, e nell’altro, stravolgere il senso stesso dello stare allo stadio.
È così. Nel caso della partita, ci troviamo di fronte a una minoranza di teppisti organizzati, che si è impadronita di un luogo che dovrebbe invece essere teatro di una gioia collettiva, come lo è lo sport. Lo abbiamo purtroppo permesso per anni, pensando di rinchiudervi questa orda selvaggia. E’ la stessa cosa che sta accadendo ora nelle manifestazioni, che pure rappresentano, spesso e volentieri, la voglia di centinaia di migliaia di persone di esprimere, quando è il caso, un sano dissenso. E’ la stessa logica. E sono esattamente le stesse matrici di violenza.
Quasi che relegarla all’interno dello stadio fosse un modo per circoscriverla.
Abbiamo solo lasciato che si abbassasse appena il livello di intensità, rispetto agli anni 80 e 90, delegando a pochi scalmanati – perché, ripeto, non sono tifosi - la gestione di tutto questo, a volte anche in maniera strumentale da parte delle società. E, tanto per essere chiari, un certo genere di trasmissioni, che si sentono anche qui a Roma, negli anni passati hanno costituito un problema vero. Perché abbiamo spesso dato diritto di tribuna a persone che, francamente, non dovrebbero trovare spazio in una società civile.
Qual è l’antidoto a tutto questo? E quindi il modo per far sì che cori come “romanista ebreo” non si ripetano più?
Credo che, trovandoci ormai in uno stato di malattia cronica, l’unica cosa è mettere in atto una terapia d’urto, i cui effetti li vedremo solo tra qualche anno. Mi torna ad esempio in mente che, negli anni passati, il Comune di Roma, per molti anni, ha portato i ragazzi ad Auschwitz, facendo vedere loro da vicino cos’ è successo in quegli anni. Ecco, credo che una cosa da fare sia inondare i ragazzi di Memoria e conoscenza della Storia. Insomma, cultura. E per quanto riguarda lo stadio, portarvi sempre più le famiglie. Ma con iniziative concrete, non con le solite chiacchiere.
Ovvero, come?
Il mondo del calcio va economicamente razionalizzato, e non lo dico solo io. Abbassiamo i prezzi dei biglietti. Facciamolo utilizzando gli strumenti normativi che abbiamo. Ad esempio, con una parte dei diritti sportivi, che finanzino questa riduzione dei prezzi. E in tempo di crisi, questo non può che portare benefici all’economia, visto che si rimette in moto la spesa. Penso a un biglietto che costi la metà se vai con tuo figlio. Sono i ragazzi, e le famiglie, l’antidoto. Cominciamo a far sentire, queste quattro merde che si sentono padroni dello stadio, come una assoluta minoranza che sa solo distruggere. Facciamolo portando nelle scuole il concetto che la diversità, nella storia del mondo, è sempre stata una ricchezza. Legando quindi progetti e iniziative allo sport. Penso a chi lavora intorno al concetto di calcio sociale. C’è un’esperienza significativa, a Corviale, che ha riscritto le regole del calcio a otto, mettendo in squadra un disabile o un ragazzo con problemi psichici. Guardando all’integrazione e al coinvolgimento. Tutti insieme, si possono fare grandi cose. Sta alla volontà delle persone attuarle o meno.
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