rassegna stampa roma

La Roma la rivoluzione, l’Inter la restaurazione

(Il Romanista-T.Cagnucci) “Lontana è Milano dalla mia terra”, cantava il poeta. E la Milano nerazzurra se è possibile lo è anche di più. Roma e Inter non hanno mai avuto niente da dirsi:

Redazione

(Il Romanista-T.Cagnucci) "Lontana è Milano dalla mia terra", cantava il poeta. E la Milano nerazzurra se è possibile lo è anche di più. Roma e Inter non hanno mai avuto niente da dirsi:

apposta quando si sono incontrate si sono sempre prese a pallonate (negli ultimi trent’anni è il classico con la più alta media-gol).

Roma e Milano è una contrapposizione su cui s’è scritto e detto molto, fa parte della storia (e della non storia) dell’Italia, si sconfina nella geopolitica, nel sociale persino in questo tempo di globalizzazione. Un po’ ci si marcia, un altro bel po’ no. Sicuramente nel calcio mai come in questo momento la contrapposizione simbolica coincide con quella reale, soprattutto se a Milano parliamo di Inter (a Roma non c’è niente da specificare). E’ così forte che si può usare un linguaggio cinematografico, usare l’immagine, fare un montaggio parallelo delle parole dette dal presidente Massimo Moratti dopo il tracollo dell’Inter a Palermo, e quelle arrivate dagli Usa da DiBenedetto dopo la sconfitta della Roma all’Olimpico col Cagliari. All’Inter si ragiona e si parla così:«Ci siamo rimasti male tutti, penso per primo l’allenatore, quindi credo che sia lui stesso, senza bisogno di nessuna spinta, a cercare i rimedi necessari, se non altro al momento per rimettere la squadra in condizione di aver fiducia. Se questo è il momento di cambiare modulo? Penso di sì». Alla Roma si parla e quindi si pensa così: «Ho apprezzato i progressi fatti dalla squadra e spero che il lavoro che tutti stanno facendo - giocatori, allenatore e società - presto dia i suoi frutti anche in termini di risultati». Sono visioni antitetiche.

Gasperini è all’angolo, Luis Enrique - tanto per usare una formula contrappasso - è al centro del progetto. Gasperini rischia stasera di perdere letteralmente la Trebisonda, Luis Enrique sarà comunque - comunque - sicuro anche sabato sera. Saranno febbri diverse quelle, così come sono state due sconfitte diverse quelle contro le squadre isolane di tre giorni fa. L’Inter è ancora una rosa composta per tanti quarti dai giocatori che hanno fatto la sua recente storia, sfioriti; la Roma nella sua ultima-prima partita ha messo in campo otto acquisti: ha la storia davanti non dietro. Fiorisce. La sconfitta dell’Inter è logora, sa - visto che le parole sono importanti - di trend negativo; quella della Roma è battesimale, quasi un’iniziazione per entrare nel club di chi le cose le costruisce, di chi si sceglie il destino. Il giorno dopo il ko al Barbera a Interello c’è stato già un faccia a faccia tra presidente-allenatore e presidente direttore sportivo, a Roma Luis Enrique ha quasi commosso la squadra col suo discorso dopo la delusione da Ogni maledetta domenica. Ieri stavano a cena insieme. Sono effetti di cause chiare. Gasperini è stato scelto da Moratti dopo l’improvvisa fuga del fedelisssimo uomo- bandiera Leonardo e dopo i rifiuti dei vari Capello e Bielsa fino ad arrivare persino al no di Mihajlovic. Luis Enrique è stato scelto da Baldini a marzo. E’ stato scelto guardandosi negli occhi, parlando di letteratura, facendo mercato, guardando partite, spiluccando e studiando. Baldini s’è preso solo un no di Villas Boas (ah che pure all’Inter e in maniera più brusca ha detto no) e probabilmente perché Shakespeare è inglese come quelli del Chelsea. Sono visioni differenti: riuscite ad accostarli (montaggio alternato) Marco Branca e Walter Sabatini? Pochi mondi viaggiano così distanti come quelli dei due direttori sportivi di Inter e Roma: uno c’ha il doppio petto, l’altro è un poeta. E’ una questione di profilo e di sostanza, di estrazione e di fantasia, di faccia e di filosofia. Di tutto. Non a caso quest’estate l’Inter ha fatto il mercato sulle idee di Sabatini: Alvarez grida ancora vendetta (per i modi e per il principio, non per il valore del giocatore) anche se poi la vendetta è arrivata con l’acquisto di Lamela che era nell’agenda dell’elegantino mellifluo Branca. Anche con Palacio era inizato il battibecco.

Questione di stile. Ecco è soprattutto quello. Qui per la prima volta nella storia del pallone d’Italia c’è in atto una rivoluzione, là c’è il peggior trasformismo di questo paese. Perché i confronti tra Enrique e Gasperini, fra Sabatini e Branca (metteteci pure l’imbarazzante questione Forlan- Champions da una parte, mentre dall’altra si fa scientemente giocare Borriello in Europa League), pure netti e inequivocabili, non esauriscono le distanze fra Roma e Inter. Moratti c’è da anni, DiBenedetto da giorni, ma soprattutto un gesto ha già riempito di spazio siderale la A1: lo scudetto del 2006. Calciopoli I e Farsopoli II. Le intercettazioni buone e quelle cattive, le morali fatte ad arte e quelle vissute. Telecom, il campionato Tim, Guido Rossi e Tronchetti Provera che si acchittano il calcio italiano mentre chi ha fatto in modo che scoppiasse viene "dimesso" all’estero. Ma la memoria non è ancora andata in prescrizione. E’ di quest’estate l’episodio che traccia il confine: Palazzi e la Procura federale che annegano nell’illecito sportivo lo scudetto di cartone e Moratti che fa di tutto per tenerselo sdrucito e lercio (già, chi non c’è più lasciatelo in pace). Litiga con la Juve, con Della Valle, il restante dei tifosi del mondo, forse con parte residua dei suoi, per non staccarsi dal cappottone blu quella spilletta snob, arrogante e falsa dell’"Io sono onesto". Mentre accadeva questo la Roma, la Roma che quello scudetto lo meriterebbe di diritto, così come quello del 2008, col suo presidente provvisorio Cappelli diceva «grazie, noi non chiediamo nulla». Oh no, senza ironia e senza mai nessun Lazio- Inter 0-2 nella nostra storia.