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Jerry, romano di Francia in fuga dalla città che ama

(Il Messaggero – F. Persili) – Parte spesso dalla panchina, Menez, si porta dietro qualche acciacco, tanto che il presidente del Monaco vede l’assegno di 10,5 milioni, e brinda a champagne.

Redazione

(Il Messaggero - F. Persili) - Parte spesso dalla panchina, Menez, si porta dietro qualche acciacco, tanto che il presidente del Monaco vede l’assegno di 10,5 milioni, e brinda a champagne.

Il piccolo Zidane, lo chiamano così in Francia, dalle parti di Trigoria trotterella alla ricerca dell’ossequio con le stimmate del nuovo Cassano. Genio ad intermittenza e talento fuori dal comune. Tutto pronto per celebrare la favola del ragazzo di strada che sbarca alla conquista della Capitale. Come lui solo Fantantonio, cresciuto, però, in un vicolo di Bari Vecchia, non alla periferia di Parigi, banlieu 94. Il suo numero di maglia, il codice di un riscatto che si perde dietro la linea d’ombra del molto fumo e pochi gol, negli sbalzi di rendimento, in qualche litigio da night-life capitolina, nella diffidenza dei tecnici. A Ranieri quell’indolenza romano-transalpina non piace, e fa di tutto per farglielo notare. Lo prende spesso da parte, lo sprona: «Guarda, sei il più forte che ho allenato alla tua età». Dipende da Jerry, adesso. Dopo la trasferta di Cagliari, con l’ingresso nei minuti finali, e ancora una discussione con Ranieri, arriva la consacrazione con l’Udinese. Assist a ripetizione per Vucinic, chè lui preferisce far segnare gli altri, un be bop swing di dribbling e giocate, anche se lui è più rap, e va pazzo per il gruppo francese dei 113. Prova a liberarsi dell’etichetta del ribelle che si compiace del proprio diletto, e diventa l’asso nella manica di Sir/Sor Claudio da Testaccio nel testa a testa con l’Inter. Il vice di Ranieri, il “tattico” Damiano, lo conosce bene, e Jerry diventa una mossa per aprire le difese. «Un diamante da lucidare, che cambia il volto della squadra», l’allenatore giallorosso ripropone il paragone che Capello fece con Cassano («un diamante grezzo») e gioca la carta Menez per cambiare le partite in corsa. Accade così nel derby di ritorno dello scorso campionato contro la Lazio in cui il francese sembra un centrocampista completo: di proposta e (rin)corsa. Vuole lo scudetto, dice «Roma è la mia casa», anche quando i ladri si accaniscono sulla sua villa, sogna la Nazionale francese. Blanc se ne accorge e lo chiama, Ranieri, quest’anno, dopo l’inizio choc, cerca di plasmare intorno a lui la squadra. È l’uomo dell’effimera rinascita, nel piccolo ciclo di vittorie che sul finire del girone d’andata (ri)porta in zona Champions la Roma. Il gol al Cagliari, sotto gli occhi di Platini, è la sua foto-ricordo. Finta, controfinta, doppio passo, il portiere a terra, la porta è vuota, ma lui tira forte per segnare. Sorriso stirato, porta l’indice davanti alla bocca con quell’aria da romano di Francia del faccio un po’ come mi pare, e Montali che spiega che ce l’aveva con i suoi amici in tribuna. L’esonero di Ranieri lo allontana dal campo, si torna al 4-2-3-1, e di Menez non resta che il segno dell’inespresso, la futilità dell’imprevedibile, la condanna al castigo per eccesso di sregolatezza. Così anche le macchine, e le scarpe, dai colori sgargianti, più che esibire il gusto artistoide del mago Jerry, lo mandano fuori catalogo. L’incantesimo si rompe, i sassi dei teppisti, e le incomprensioni con Montella fanno il resto. Menez saluta tutti, e fa per andarsene. Come quando guizza sulla fascia, una finta, e via. In fuga, un’altra volta. Solo, mentre il Colosseo aspetta un altro talento da sbranare