rassegna stampa roma

Il più fantasma dei tiri. L’acrobazia cancellata del riciclato Osvaldo

(La Repubblica – G.Romagnoli) – E’ la scena madre abortì. Il gol più bello della domenica viene concepito, ma non arriva all’anagrafe per un intervento arbitrale che lo sospende nel limbo delle reti fantasma.

Redazione

(La Repubblica - G.Romagnoli) - E' la scena madre abortì. Il gol più bello della domenica viene concepito, ma non arriva all’anagrafe per un intervento arbitrale che lo sospende nel limbo delle reti fantasma.

Resta a mezz’aria Pablo Osvaldo, immortalato in un’acrobazia da bustina Panini, un gesto perfetto che la memoria non sa se conservare come un brillante o gettare come un pezzo di vetro. C’è un crinale di non poco conto da valicare, scomodando la filosofia, il diritto e la calciofilia. Che cosa esiste: quel che abbiamo percepito o quel che viene registrato? Dobbiamo arrenderci alla giustizia anche quando ci chiede di essere ingiusti? E soprattutto: questo funambolo del superfluo è un campione o un bidone? Rewind. Olimpico di Roma, squadra di Luis Enrique, come spesso, padrona & sprecona. Dal possibile 3-4 a 0 a un poco rassicurante 2 a 1 contro il Lecce. Manca il killer che ammazzi le partite. Bojan è, in tutti i possibili sensi, pietoso. Lamela ricama. Totti è torvo. Resterebbe Pablo Osvaldo, prelevato in estate a caro prezzo stupendo molti. Perfino un lontano cugino marchigiano di Filottrano, che da tempo cerca invano di organizzargli una festa in paese, ebbe a dire: «Davvero varrà tutti quei soldi?». Tranquilli, è l’annata del riuso.

C’è la crisi, si guarda in fondo al guardaroba, si tira fuori una giacca che un tempo pareva pacchiana, si destruttura togliendo le spalline, si abbina con gusto et voilà: in testa alla classifica marcatori c’è Denis che a Napoli era una mutanda. Osvaldo a qualcuno sembra nuovo, ma ha già giocato nell’Atalanta (proprio come Denis), nel Lecce (con Zeman, che lo stimava), nella Fiorentina di Prandelli, nel Bologna. Per sbocciare è dovuto andare a Barcellona (lato Espanyol) e tornare. Ha già segnato quanto nella miglior stagione italiana tutta intera. Ha recitato da Zelig, facendo il Totti a Roma (con la maglietta della purga a sproposito) e l’arcitaliano in nazionale (cantando la nenia di Mameli più forte degli altri). È pronto per il salto, a tutti gli effetti. Gli manca il passaggio (in) giusto. Glielo fa Gago. Dal lato destro del campo fa partire un cross sbagliato, troppo arretrato rispetto alla posizione del centravanti. Non è mai dato sapere quel che il giocatore pensa, se pensa. C’è un luminoso secondo che schiude le porte del possibile e accende l’eterno interrogativo: che fare? Lasciar andare o buttarsi? Tentare il gran gesto rischiando la fetenzia da Gialappa’s? In quell’istante soccorre l’esperienza di sé, il tracciato del già fatto, quindi ripetibile. Sono bravo, bene: bis. Osvaldo aveva azzeccato la rovesciata un’altra volta, in un frangente ancor più estremo: ultima di campionato 2007-2008, Fiorentina-Torino, se la Viola vince va in Champions. Lui fa l’acrobata, segna, esulta, Prandelli ringrazia e qualche anno dopo ricambia con una maglia azzurra. Memore, Pablo dà le spalle alla porta e butta le gambe dalla parte opposta, impatta, trova la traiettoria perfetta e insacca.

L’Olimpico esulta, solo l’arbitro fischia. Ma il suo gesto annulla quello di migliaia di persone. La maglietta di Osvaldo resta tirata sulla faccia ad annullarne (dopo la rete) il volto. Una maschera di nessuno, la celebrazione di niente. Eppure. Dove sta il confine? Se l’arbitro non sbaglia, quel gesto finisce nella rubrica del gol di Gianni Mura al lunedì come il piatto migliore del menù. Viene invece spazzato in questa raccolta di avanzi e frattaglie del martedì. Che senso ha ricordare quel che non è stato? Un momento: davvero non è stato? Chi ha il potere di annullare i ricordi? C’è una sequenza che ricorre nei film in cui si inscena un processo. L’accusa porta una prova (diciamo, un’intercettazione) che dimostra in modo chiarissimo la responsabilità dell’imputato. La difesa eccepisce l’irregolarità del metodo. Il giudice intima alla giuria di non tenerne conto nel verdetto e quella, alla fine, assolve. Boskov direbbe: gol è se arbitro dà. Ma Platone concorderebbe? Quello di Osvaldo non è, ontologicamente, un gol? Adesso non vorrei addentrami nella caverna e proiettare l’immagine della rovesciata sulla parete per distinguere l’idea dall’entità, perché mi perderei. Resta la scelta del cuore. Nel “Più mancino dei tiri” Edmondo Berselli glorificava lo studioso rinchiuso in prigione che scrive la storia sulla base di quel che la memoria, non l’archivio, gli consente. Tramandiamolo allora come un meraviglioso (non) gol e annulliamo l’arbitro. Quanto al lontano cugino di Filottrano, lasciamolo pure nel dubbio.