rassegna stampa roma

Il Fornaretto che fu profeta in patria

(Il Messaggero – R.Renga) Domani Amedeo Amadei toccherà, con la soddisfazione di chi sa di non aver buttato la propria vita, la vetta dei novanta anni.

Redazione

(Il Messaggero - R.Renga) Domani Amedeo Amadei toccherà, con la soddisfazione di chi sa di non aver buttato la propria vita, la vetta dei novanta anni.

Fare gli auguri a lui è come farli a Bruno Conti, a Francesco Totti e a Daniele De Rossi, che proprio ieri, tra l’altro, ha festeggiato il compleanno. Infileremmo nella lista di chi, romano ha fatto la storia della Roma, Ferraris Quarto, Fulvio Bernardini e Agostino Di Bartolomei se fossero ancora qui e potessero sedere in curva sud. Venne chiamato, con poca fantasia, ce lo permetta, Amedeo, quando il 26 luglio del 1921 dette il via alla sua favola a Frascati, in uno dei Castelli, come ogni buon narratore avrebbe deciso, potendolo, di farlo nascere. Da quel balcone vide la capitale di allora e decise di conquistarla, quando, sei anni dopo la sua, illuminati signori dettero vita a un’altra favola, quella della Roma.

Amedeo giocava a pallone per strada e andava in bicicletta. Portava, pedalando, il pane che si cuoceva nel forno di famiglia. Un giorno il fornaretto lesse che la Roma avrebbe fatto un provino e convinse un amico a scendere a valle, pedalando e tradendo la consegna dei familiari. Mise gli scarpini chiodati, segnò, corse e si innamorarono di lui. Infilò di nuovo i pedali e salì, tornante dopo tornante, a Frascati, dove l’aspettava il padre, agitato e nervoso. Non per il viaggio, ma per la fuga dal lavoro. Aveva fatto tardi, ci si mise di mezzo anche un tubolare bucato. La Roma lo chiamò, il padre votò per il forno, Adriana e Antonietta, le sorelle, lo salvarono: avrebbero lavorato al posto suo, ma che conquistasse gloria e portasse soldi a casa. Ottenne l’una e gli altri. Esordì, segnando, contro la Fiorentina il 2 maggio del 1937: avrebbe fatto sedici anni, due mesi e 24 giorni dopo. Il più giovane esordiente e goleador di sempre. Gianni Rivera, per dire, aveva nove giorni in più quando vide la luce ad Alessandria. Come già succedeva, la tifoseria si divise in due: c’era chi stava con il bambino di casa e chi, al suo posto, voleva lo straniero forte e costoso.

Due anni dopo lo mandarono a Bergamo e poi tornò. Il centravanti nel nuovo campo di Testaccio, che ai gol giallorossi si agitava come un veliero in mare, era un argentino indecifrabile, acquistato, come si faceva allora e si fa oggi, alla cieca. Piaceva il nome: Provvidente, che sa di provvidenza, dunque di grazia o clemenza divina. I romanisti lo battezzarono su due piedi: Provolone. Era cotto. L’allenatore veniva da Budapest ed era stato uno dei più prolifici cannonieri del tempo: Alfredo Shaffer, che sarebbe morto nel 1945, in guerra. Mise Amadei centravanti, facendo la fortuna di entrambi. Tra Pantò e Krieziu, si ritrovò così bene da portare alla Roma il primo scudetto e una valigia di gol. Bombardono Roma e i castelli, il forno saltò in aria. Lo ricostruì, ma servivano lire. Ad Amadei e alla Roma, che lo cedette all’Inter. Trovò così anche la Nazionale: da Roma l’azzurro si vedeva poco e male. Dall’Inter al Napoli e fece l’allenatore. Non è per me, si disse. E passò, gratis, alla nazionale femminile. Ha perso i capelli, ha messo qualche chilo, dovrebbe girare con il bastone ma si vergogna, racchiude nel suo cuore tutta la storia della Roma. Come nei romanzi d’appendice ha cancellato un’ingiusta macchia nera: lo squalificarono per un calcio all’arbitro, dato da un altro. Amnistiato e innocente.

Grazie per la compagnia, per le domeniche regalate, per i 174 gol e per i 101 fatti con la Roma; grazie per l’intelligenza e l’umorismo; grazie di tutto e cento di questi giorni.