rassegna stampa roma

I Red Sox, i Celtics, passione infinita per lo sport

(Il Romanista – D.Giannini) Chi è stato almeno una volta nella vita a New York, sa cos’è la Grande Mela, sa che è una di quelle cose che prima o poi vanno viste.

Redazione

(Il Romanista - D.Giannini) Chi è stato almeno una volta nella vita a New York, sa cos’è la Grande Mela, sa che è una di quelle cose che prima o poi vanno viste.

Chi non c’è stato comunque è come se un po’ la conoscesse grazie a decenni di film americani. La città che non dorme mai, come cantava Liza Minelli. “I wanna be a part of it”, “Voglio farne parte” diceva la canzone "New York, New York". Ecco, la vera differenza con Boston, la città dei nuovi proprietari della Roma, è proprio qui.

Perché mentre della caotica metropoli New York si vorrebbe essere parte, di Boston si è subito parte. Quando ci si arriva, ci si sente subito parte della città. Ci si sente a casa anche se si sta a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia. Sarà perché le sue dimensioni non sono spropositate, sarà perché è a misura duomo, sarà perché ha un non so che di europeo... Quando si arriva a Boston, non la si vorrebbe lasciare mai.

BOSTON E’ questo l’effetto che ha fatto anche ai giornalisti che lo scorso aprile sono volati negli Usa per la firma dell’accordo per la cessione della società al gruppo guidato da Thomas DiBenedetto. Chi vi scrive è stato uno dei primi di quel gruppo di giornalisti italiani a sbarcare in questa città meravigliosa. Folgorato ancora prima che dal rosso dei Red Sox o dal verde di Celtics, dal blu intenso, maestoso dell’oceano. Quello che ha accompagnato quasi tutto il viaggio dall’Italia. E poco importa se allora il cielo era coperto dalle nuvole, perché sono bastate poche ore a capire cosa può significare Boston per un bostoniano. Una città nella quale si trova tutto ciò che si immagina degli Stati Uniti, dove per noi tutto è grande, “oversize”, eppure è tutto lì a portata di mano. Una città che vive lo sport intensamente, ogni giorno dell’anno. Il baseball, il basket, la passione per la corsa. In quei giorni di aprile tutta la città sembrava saltellare per la maratona che si sarebbe disputata nel week end. Una città verde, piena di parchi che spuntano in mezzo ai grattacieli, dietro a quali arriva quasi improvviso l’oceano. E poi i ristoranti di pesce dove si mangiano aragoste deliziose a prezzi accessibili a tutti anche in pieno centro. Un centro che si può girare a piedi in pochi minuti. Sì, Boston ci mette poco ad entrarti dentro.

IL FINANCIAL DISTRICT Tutta questa lunga premessa ha un motivo. Perché solo capendo bene la città dalla quale provengono, si può provare a capire meglio chi sono e il modo di operare degli uomini che hanno acquistato la Roma. Stasera DiBenedetto, che a breve sarà eletto presidente, sarà per la prima volta allo stadio Olimpico da quando c’è stato l’atteso "closing". Ma facciamo un passo indietro di qualche mese, a quei giorni frenetici di aprile, quando il futuro della Roma si è deciso nei lussuosi uffici del Financial District, il centro degli affari di Boston. In quei giorni tutto si è svolto nel giro di qualche isolato, poche centinaia di metri. Quelli coperti dall’immaginario triangolo isoscele formato dalle sedi degli uffici di Michael Ruane (uno dei due soci meno noti ai tifosi romanisti, ma non meno importanti, assieme a Richard D’Amore), di James Pallotta e di DiBenedetto.

Nel mezzo di questo triangolo c’era e c’è il numero 1 di Federal Street, ovvero la sede dello Studio Bingham dove arrivò quella firma decisiva sui contratti preliminari di vendita. In quel momento, girando tra Tremont Street, il numero 28 di State Street (sede degli uffici della TA Realty Associates) e il numero 50 di Rawes Wharf (lo splendido palazzo che affaccia sul mare da dove James Pallotta coordina le sue attività), si è cominciato a capire che il futuro della Roma poteva essere in buone mani. Le mani di grandi uomini d’affari ma anche di grandi uomini di sport. FENWAY PARK Thomas DiBenedetto ha una passione in particolare per il baseball e per i Boston Red Sox (di cui è co-proprietario), la squadra che è da sempre il simbolo e l’orgoglio della città.

Anche grazie ad un impianto che fa venire i brividi solo a pronunciarne il nome: Fenway Park. «Non voglio andare troppo oltre, ma non riesco ad immaginare niente di più divertente di vedere la Roma giocare al Fenway Park» disse qualche tempo fa Pallotta. Ma cosa ha di speciale questo impianto mitico? Tanto per iniziare, ha tutto ciò che serve per far vivere al meglio lo sport. Perché andare a vedere i Red Sox è una festa. Per tutti. Per i tifosi più accaniti, che possono cominciare a “sentire” l’attesa del match andando a bere e mangiare nei tantissimi locali attorno allo stadio.

Così come per le famiglie, che possono acquistare qualsiasi oggetto con la "B" di Boston o con i due calzini simbolo della squadra negli Store accanto agli ingressi. Le stesse famiglie che poi entrano a divertirsi senza tornelli, tessere del tifoso, perquisizioni della polizia e, soprattutto, senza il minimo rischio. E dentro lo stadio la festa continua. Perché le due ore che precedono il primo lancio sono un crescendo di emozioni. Dai veterani di guerra premiati in campo, a un coro di bambini che cantano meravigliosamente bene tanto da far venire la pelle d’oca, fino all’esecuzione dell’inno americano che commuove anche chi americano non lo è. A metà match tutto lo stadio che intona “Sweet Caroline” di Neil Diamond («Good times never seem so good. So good, so good, so good»). Se vi capita, ascoltatelo su youtube aggiungendo al titolo della canzone “Fenway Park” e poi vediamo chi non diventa un po’ tifoso dei Red Sox. Uno stadio meraviglioso, che fa registrare il tutto esaurito ad ogni partita, anche perché è moderno e confortevole pur avendo conservato la struttura e quindi il fascino delle origini. Dei primi anni del secolo scorso quando si è cominciata a fare la storia del baseball. Basta guardarlo da fuori per respirare nell’aria quasi 100 anni di grandi giocatori, di grandi imprese, di successi e anche di sconfitte che hanno fatto dei Red Sox la storia del baseball.

IL MUSEO DELLO SPORT Una storia che DiBenedetto e i suoi soci vorrebbero iniziare a scrivere anche per la Roma. Magari in un nuovo impianto che un giorno possa diventare glorioso come Fenway Park. Uno stadio che possa avere il suo interno un museo che racconti le gesta degli uomini che hanno fatto grande il club giallorosso e, forse, di tutto lo sport romano. Un po’ come succede al TD Garden, o semplicemente il “Garden”, ovvero il palazzetto dove giocano le partite in casa i Bruins di Hockey su ghiaccio e, soprattutto, i Celtics del tifosissimo James Pallotta. Ovvero la squadra che negli anni ha visto calcare il parquet (mitico anche quello) ai vari Bill Russell, John Havlicek, Larry Bird, Kevin McHale, Danny Ainge, Robert Parish (The Chief). Fino ai giorni nostri con Kevin Garnett, Rajon Rondo, Paul Pierce. A loro e non solo a loro è dedicato il museo del Garden, al quale si può accedere in qualsiasi giorno dell’anno. Basta prendere la metro, che fa fermata esattamente sotto le tribune, pagare qualche dollaro ed ecco che una ragazza gentile ti fa accedere ad una vera e propria macchina del tempo con la quale si può viaggiare attraverso la storia dello sport. Basta un attimo e si inizia a sognare, si riescono quasi a sentire le scarpe di Larry Bird che stridono sul legno del terreno di gioco, oppure l’odore intenso dei match di Rocky Marciano.

E’ come se lo spirito di tante imprese non avesse mai lasciato quelle quattro mura e sia ancora lì a disposizione di chi abbia voglia di riviverle. Si passeggia così attorno agli spalti e in mezzo ai cimeli. Si parte dal basket e dalle scarpette dei Celtics degli anni 50 e 60 (ma come facevano a non spezzarsi le caviglie?), i giornali dell’epoca, le foto degli idoli di allora, le loro caricature, addirittura delle statue. E si va avanti, verso la sezione dei Bruins e poi verso quella davvero emozionante della Boxe. Con le foto in bianco e nero che fanno molto film poliziesco. Qui hanno combattuto Joe Louis, "The Brown Bomber", che fu campione dei massimi tra il ’37 e il ’49. Sempre qui ha combattuto un certo Rocky Marciano, padre della provincia di Chieti, madre della provincia di Benevento, che negli anni 50 è stato l’orgoglio degli italiani d’America. Che allora come adesso sono legati profondamente alle proprie radici.

PASSIONE ITALIANA «Se sono qui è anche perché sono italiano e mi chiamo DiBenedetto» aveva detto qualche tempo fa Mr Tom a chi gli chiedeva perché avesse deciso di investire sulla Roma. Origini italiane, come quelle di James Pallotta, che alcuni quotidiani americani definiscono come una "leggenda degli Hedge Fund", i fondi di investimento. E che subito dopo gli accordi di Boston disse: «Io sono un italo-americano, ma in me vedo molto di italiano. Mio padre mi ha sempre detto "Tu sei prima di tutto italiano". La mia famiglia ama il calcio, ma fino a una settimana fa (era la metà di aprile, ndr) fondamentalmente non sapevano che io sarei stato coinvolto in questa cosa ». Già, la famiglia, le sue due sorelle, Carla e Christine. Anche loro legatissime alle origini, tanto da decidere di aprire un ristorante italiano, il "Nebo", a due passi dal "Garden". Due ragazze solari, che appena hanno saputo che venivo dall’Italia hanno spalancato le porte del loro locale elegante e frequentato da gente di ogni tipo, compresi i tifosi che vanno a vedere le partite. «Capiamo la vostra follia per il calcio, noi siamo pazze per i Celtics. Siamo felici che gli italiani tengano tanto a noi, nostro padre sarebbe stato veramente orgoglioso ». Anche Carla e Christine sono diventate famose in questi mesi, in attesa che la Roma diventasse americana a tutti gli effetti. Il loro contatto su Facebook ha ricevuto migliaia di richiesta di amicizia. Ora però l’attenzione è tornata tutta su Thomas DiBenedetto, che stasera sarà, per la prima volta dopo il closing, all’Olimpico.

Stasera comincerà veramente un nuovo capitolo della gloriosa storia giallorossa. Pagine da scrivere, trofei da conquistare, con la solita indomabile passione del popolo romanista e con quella tutta nuova degli americani di Boston.