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Ginulfi: “Per la Roma rifiutai Juve e Santos”

(Il Romanista – M.Izzi) Ho incontrato Alberto Ginulfi pochi giorni or sono in occasione di una cena in onore di Giorgio Rossi, l’occasione giusta per chiedergli di raccontare al Romanista la storia della sua straordinaria carriera.

Redazione

(Il Romanista - M.Izzi) Ho incontrato Alberto Ginulfi pochi giorni or sono in occasione di una cena in onore di Giorgio Rossi, l’occasione giusta per chiedergli di raccontare al Romanista la storia della sua straordinaria carriera.

Con ritmi più consoni a quelli di un quotidiano celebriamo intanto i 70 anni di Alberto, compiuti proprio ieri e festeggiati con una bella cena in famiglia, assieme agli affetti più cari. Allora, partiamo con una domanda atipica. Ti dice niente il numero 158? (Sorride) «Francamente no, perché?». E’ il numero della tua figurina nell’album AS Roma di quest’anno. Sei stato inserito nella sezione delle “Bandiere”. Mi sbilancio e aggiungo una valutazione, dagli anni 60 a oggi, i migliori portieri della Roma sono stati, in ordine alfabetico: Cervone, Cudicini, Ginulfi e Tancredi. Condividi? «Beh, lascio giudicare agli altri, dico però che se ne avesse avuto il tempo, in questa lista avrei visto molto bene Angelo Peruzzi. La sua partenza è stata una grande, grande, perdita per la Roma. Poi, a titolo beneaugurante, mettiamoci anche Stekelenburg, gli auguro tutto il bene possibile».

 

Ci parli dei tuoi inizi? Avevo 11 anni ed entrai nella Spes di Padre Libero Raganella, un sacerdote eccezionale, che era anche un grande appassionato di calcio e naturalmente della Roma.

Mi dicono che fosse amatissimo a San Lorenzo. Altroché, tanto che quando le autorità ecclesiastiche lo spostarono a San Paolo ci fu una rivolta generale, con tanto di manifestazione a Largo dei Volsci.

Alla Roma come sei arrivato? Mi segnalò l’allenatore della Spes, Giulio Scardola, che aveva giocato nella Roma nel 1927, e che si era occupato a lungo del settore giovanile giallorosso. Mi presero subito, anche perché ero stato già selezionato nelle varie rappresentative giovanili regionali.

Levami una curiosità, come sei diventato portiere? Bella domanda. Diciamo che, senza falsa modestia, me la cavavo bene anche con i piedi… Non lo so, per me quella del portiere è una scelta d’istinto, le doti di chi decide di stare tra i pali si possono affinare, non creare. Da bambino giocavo a Largo dei Volsci. Iniziavamo alle 15, quando toglievano i banchi del mercato rionale e andavamo avanti fino alle 20. Mi piaceva giocare in porta, forse anche perché quello era il ruolo di mio padre, quando era ragazzo.

E’ vero che giocando in porta si ha la sensazione di volare?Sì, sì, però ricordati che l’importante è prendere la palla.

La più bella parata della tua carriera? La prima che mi viene in mente la feci all’Olimpico, in un Roma–Napoli. Barison fece un gran colpo di testa e mise la palla all’incrocio dei pali. Riuscii a mandarla in angolo.

Giustamente si parla sempre del rigore che hai parato a Pelé, molto meno del fatto che alla fine di quella gara ti proposero di andare a giocare in Brasile, è vero?E’ vero, negli spogliatoi Sannella, un dirigente del Santos, mi disse che in Brasile avevano bisogno di portieri in gamba e chiese la mia disponibilità. Ma non ho mai voluto lasciare la Roma, anche quando sono arrivate richieste da grandi club italiani, come la Juventus.

Alla Roma hai voluto e vuoi molto bene. Ci sono cresciuto, e per la Roma ho dato sempre il massimo, anche quando, forse, avrei dovuto cercare di risparmiarmi. Penso ad esempio a quando mi riscontrarono un’anomalia cardiaca. Dovetti fermarmi per tre mesi, passati a letto con la prescrizione del riposo assoluto. Quando mi rimisi in piedi, non feci in tempo a fare due allenamenti che mi chiesero di rientrare, perché c’era: «Bisogno». L’ho fatto, anche se in questo ruolo non s’inventa niente e se non sei allenato è tutto durissimo.

A bruciapelo dimmi tre nomi di atleti romanisti dei tre scudetti che ti piace ricordare. Parto da Guido Masetti, che è stato mio allenatore nelle giovanili della Roma, nella De Martino, da lui ho imparato tantissimo. Mi diceva sempre di curare il piazzamento: «Guarda la posizione dei pali e quella della palla… questa è la bisettrice e se ti piazzi in funzione della palla, quella passerà sempre da qua e la prenderai senza neanche buttarti». C’e poi Pietro Vierchowod. Quando si parla del secondo scudetto della Roma sento poco parlare di lui. Io l’ho avuto a Firenze quando ero secondo allenatore con Giancarlo De Sisti. Uno così non l’ho più visto. Il terzo nome, è quello di Fabio Capello, soprattutto nel ricordo di un bel gol di rapina con cui ci fece vincere una partita a Torino contro la Juventus».

Partita in cui tu, tra l’altro, parasti l’impossibile. Qual è il tuo più bel ricordo nella Roma?Le Coppe Italia vinte, il Torneo Anglo Italiano? Sono sincero, il ricordo più bello sono stati i due anni trascorsi al settore giovanile della Roma come allenatore, la soddisfazione di veder crescere i giovani è meravigliosa. Per iniziare ad allenare rifiutai anche una proposta della Sampdoria.

Come Giancarlo De Sisti hai vinto lo scudetto (da secondo allenatore del Napoli) solo lontano da Roma. Si, a Roma la sensazione che ci stavamo avviando a costruire una squadra in grado di lottare per il titolo l’ho avuta solo negli anni 1969-70. Avevamo vinto la Coppa Italia alla grande e la squadra stava crescendo. Purtroppo le esigenze di bilancio imposero la cessione dei “gioielli” e il meccanismo si ruppe.

Sogni mai le tue vecchie partite? No, assolutamente, però quanto mi piacerebbe giocare in questa Roma per dare un contributo, sarebbe una gran bella cosa.