rassegna stampa roma

Fuffo e Barbesino iniziarono male, come Mazzone e Giannini. Poi fu amore

(Il Romanista – M.Izzi) – Provo a mettermi nei panni del Presidente in pectore, Thomas DiBenedetto, che appena calatosi nella realtà italiana vede la Roma inciampare nel primo ostacolo importante della stagione, i media scatenati...

Redazione

(Il Romanista - M.Izzi) - Provo a mettermi nei panni del Presidente in pectore, Thomas DiBenedetto, che appena calatosi nella realtà italiana vede la Roma inciampare nel primo ostacolo importante della stagione, i media scatenati sulla questione “Totti–Luis Enrique” e l’ex romanista Tommasi guidare l’ormai imminente sciopero generale dei calciatori.

Immaginiamo che per scuotere un imprenditore navigato come DiBenedetto serva ben altro, ma ci viene il legittimo dubbio che almeno per un secondo, abbia potuto pensare: “Ma tutto adesso?”. Ecco, caro Presidente, non ci rimanga male, perché la Roma ha ciclicamente attraversato queste violentissime tempeste con la nave ancora nei pressi della banchina e fortunatamente le cose si sono sempre messe a posto. Il primo caso che ci viene in mente è quello del dissidio Fulvio Bernardini, Luigi Barbesino. Diplomato alla Scuola Federale Allenatori, Barbesino arrivò alla Roma per portare una rivoluzione nel gioco e soprattutto nei metodi di preparazione. Grande attenzione ai giovani (anche le minori, nel primo periodo, si allenavano a Testaccio con lo stesso modulo della prima squadra e sotto lo sguardo attento del Mister) e somministrazione di un lavoro di potenziamento muscolare profondamente innovativo, permisero a Barbesino di mettersi in evidenza per il valore delle sue idee ma anche per l’intransigenza con cui le applicava. All’inizio della sua gestione, campionato 33/34 c’era stato l’arrivo del trio Guaita, Scopelli, Stagnaro. Per il ruolo di centromediano Barbesino puntò proprio su Stagnaro, argentino senz’altro di grande valore, che disputerà 25 gare. Il problema è che così facendo, il tecnico aveva relegato a seconda scelta il più forte giocatore italiano di ogni tempo, Fulvio Bernardini (per lui solo 16 presenze), che peraltro non era neanche arrivato a compiere 28 anni. All’inizio della stagione Bernardini logorato dalla situazione lasciò la capitale e si ritirò a Siena, dalla sorella. La Roma rispose ingiungendo una multa di 500 lire per ogni giorno di ritardo, mentre la squadra crollò nell’esordio di Firenze. A tornare sui suoi passi fu proprio Barbesino che chiese alla dirigenza di recuperare il rapporto con Fuffo. La pax venne firmata, Bernardini tornato a Roma sostituì la sua vecchia Ford con un’Augusta fiammante e la squadra, grazie a lui, si riprese salendo sino al quarto posto. Se qualcuno storce la bocca perché sono tornato troppo indietro nel tempo lo accontento subito e ritorno al 1984. Sulla panchina della Roma è arrivato Sven Goran Eriksson, un tecnico che ha già vinto (Coppa Uefa con il Goteborg) e che vincerà molto (purtroppo) nei due decenni a venire. Insomma, Eriksson è un tecnico eccellente e innovativo, ma al suo arrivo, l’impatto con Bruno Conti è disastroso. Il fuoriclasse di Nettuno si lamenterà di non aver avuto: «Un contatto diretto con lui. Ogni sua decisione mi arrivava attraverso il vice Sormani o peggio ancora con dei comunicati che faceva affiggere alla porta dello spogliatoio». La tensione sale anche per alcune sviste che Eriksson consuma per una incomprensione (senz’altro brutta), ma non certo per una volontà consapevole. Quando manda in campo Bruno dopo una lunga esclusione, gli consegna la maglia numero 6, invece che la mitica 7 e per il campione del mondo è un affronto mortificante. La situazione arriverà ad un livello tale che un giorno Conti, avendo notato dei fotografi svedesi all’interno del campo di allenamento, mentre quelli “storici” erano stati spediti in tribuna, calciò con violenza verso una delle borse dei “Paparazzi nordici”, centrandola in pieno. Nonostante questo, nella stagione 85/86 la Roma di Eriksson e Bruno Conti firmò una stagione strepitosa sfiorando lo scudetto e conquistando la coppa Italia. Se non basta, passo a ricordare l’inizio del rapporto tra Mazzone e Giannini (estate 1993). Sappiamo tutti che alla fine del suo ciclo Carletto stravedeva per il Principe, tanto da fare carte false per convincerlo a seguirlo a Napoli. Appena arrivato nella capitale, però, le cose non stavano così. Mazzone aveva ricevuto dei “rapporti” negativi su Peppe, dipinto come “sfascia squadre”. Prima ancora di partire per il ritiro di Lavarone, nel corso del raduno della squadra a Trigoria, il tecnico convocò il capitano nella sua stanza per conoscerlo: «Gli dissi che sul suo conto ne avevo sentite tante, che era un mafiosetto, un capoclan, che si era adoperato per far cacciare gli allenatori. Gli dissi che con me non l’avrebbe spuntata. Perché con Mazzone gioca chi è più in forma». Tre anni dopo non solo Mazzone riconobbe di aver preso una cantonata micidiale, ma Giannini era diventato il suo ambasciatore in campo.