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Contu: «Viva Luis ma stiamo attenti»

(Il Romanista – M.Macedonio) – Da attento osservatore, si dice “preoccupato”, Luigi Contu, direttore dell’agenzia Ansa, ma anche grande tifoso romanista, alla vigilia di questo derby.

Redazione

(Il Romanista - M.Macedonio) - Da attento osservatore, si dice “preoccupato”, Luigi Contu, direttore dell’agenzia Ansa, ma anche grande tifoso romanista, alla vigilia di questo derby.

Le novità in squadra, l’assenza del Capitano, e anche un po’ di cabala, non lo lasciano tranquillo. Il progetto gli piace e ancora di più lo convince la nuova società. Ma ciò non toglie che si prepari alla sfida di domenica sera con qualche apprensione. «In generale, la vivo benissimo – dice. – Nel senso che per me è sempre stata una grande partita. Per quanto riguarda invece questo derby in particolare, sono pessimista».

Come mai?

«Perché, secondo me, i numeri nel calcio contano. E questo mi fa paura. E poi, perché c’è una squadra nuova, con tanti giovani che potrebbero anche non capire appieno il derby e, in questi casi, la partita può anche mettersi a rischio. Non parlo di valori tecnici, ma semplicemente di come si affronta la gara, con giocatori e un allenatore tutti nuovi. Potrebbe anche essere un vantaggio, ma il rischio che si corre mi mette comunque ansia. In fondo, abbiamo tutto da perdere. Perché se va bene, la vittoria può dare un’ulteriore spinta al progetto. Mentre, se va male, comprometti anche parte del prosieguo del campionato. Sarebbe stato meglio arrivarci con un trend ancora più consolidato rispetto alle due sole vittorie con Parma e Atalanta. Comunque, anche loro rischiamo non poco…»

Una posizione dettata anche dalla scaramanzia, o soltanto dal prendere atto che le statistiche non depongono a favore?

«No, nessuna scaramanzia. Solo la consapevolezza che deriva dall’esperienza, avendone visti, di derby. Il primo al quale andai risale al ’73, quando ero ancora ragazzino. Mi ci portò mio zio, grande tifoso romanista. Ma ne ricordo tanti, negli anni, che non sono stati presi nel modo migliore, e quindi “capiti”, dalle due squadre. Determinando spesso risultati inaspettati».

Quanto ritiene che potrà incidere l’assenza di Francesco Totti, che in una squadra di giovani come questa, a maggior ragione, sembra essere un punto di riferimento imprescindibile per i compagni.

«In assoluto, peserà tantissimo. Perché il capitano è uno che in campo si sente. Anche quando non gioca bene. Figuriamoci adesso che stava pure in un buon momento di forma. Ma così come dicevo dell’incognita che deriva dalle tante novità, allo stesso modo penso che un’assenza così importante possa magari determinare qualche sorpresa. Anche positiva. Che so, un Pjanic che esplode in quella posizione, e allora, ecco che un danno potrebbe anche tramutarsi in un vantaggio… Ma fa tutto parte dell’ignoto. Ripeto: in assoluto è un’assenza molto pesante».

Si parla anche di un possibile impiego di Lamela. Magari non da subito, a meno che il tecnico non voglia riservare sorprese…

«Io non vedo l’ora di vederlo. Anche se non lo metterei in campo dal primo minuto, per gli stessi motivi di prima… E’ anche vero, però, che un allenatore sa se è il caso di schierarlo o meno. Penso che un giocatore così giovane, alla sua prima partita nella Roma, in quella che si annuncia come una corrida… possa anche bloccarsi. E allora, potrebbero nascere dei problemi…».

Veniamo proprio al tecnico. Che aveva destato non poche perplessità all’inizio, ma ora, sembra pian piano convincere un po’ tutti della bontà del suo progetto tattico.

«Io sospenderei ancora il giudizio. Si vedono delle cose molto interessanti, secondo me, ma penso che Luis Enrique debba ancora ragionare intorno al nostro modo di concepire il calcio. Non per snaturare il suo gioco ma per adottare quegli accorgimenti che, mi sembra, abbiamo cominciato a vedere proprio nell’ultima partita. Perché il calcio non è universale e quello italiano è certamente molto particolare. Vedere gli esterni così alti, sempre, mi sembra una cosa un po’ contro natura. Onestamente, non si era mai vista prima. Poi, magari, si rivelerà come la mossa del secolo e l’arma letale, ma per il momento non lo possiamo sapere né possiamo dirlo. E in una partita come quella di domenica, mi sembra un azzardo non da poco. Luis Enrique è certamente uno che mi piace, perché ha idee, grinta, passione. Mi auguro però che sia anche un allenatore che, calato in una realtà come quella del nostro campionato, sappia non dico adattarcisi, ma farci i conti. Perché il risultato è importante e l’estetica è certamente un fattore che può determinare un giudizio, ma poi sono i punti che contano più di ogni altra cosa. Un po’ come accadeva con Zeman, il cui gioco era bello a vedersi, e che anche con tutte le giustificazioni – a partire da una squadra che non era quella che ha poi avuto Capello - se soltanto avesse apportato qualche accorgimento, avremmo chiuso e vinto molte più partite, senza farci rimontare magari da un 3 a 0 e in contropiede…».

E per quanto riguarda la società?

«Sono molto, molto contento. Si stanno muovendo bene, sia a livello di programmi che di progetti. Si è commesso un errore, a mio parere, con il ritardo di Baldini e ciò che ne è derivato, e che avrebbero dovuto risolvere prima. E anche sulla comunicazione, c’è stata forse un po’ di confusione. Sabatini, Baldini, ma anche altri, hanno parlato molto, anche schiettamente. E giornalisticamente è stato vantaggioso per chi vi lavora, perché è sempre meglio della chiusura che conoscevamo. Ma alcune uscite, per quanto in buona fede, non sono sempre state felici. Perché, in una realtà come questa, vengono vissute e tradotte dai media, in altrettanta assoluta buona fede, nel modo che sappiamo. Perché i giornali fanno il loro mestiere e chi parla deve stare attento a quello che dice».

C’è qualcosa che l’ha colpita, tra le prime azioni condotte dalla nuova dirigenza?

«Mi sembra che abbiano capito velocemente, anche più di quanto si potesse pensare, quali sono i problemi e quali le aspettative dei tifosi. Io, ad esempio, continuo a pensare che i prezzi dei biglietti siano troppo alti. Ed è un peccato vedere lo stadio spesso mezzo vuoto. Mi muoverei soprattutto in questa direzione, cercando di riportare le famiglie, i bambini, gli anziani. Creare insomma un network che porti più gente alla partita, e con prezzi più bassi».

Penso anche al carnet di biglietti, che non intendeva bypassare la tessera del tifoso, ma conciliare le esigenze di coloro che non sono intenzionati a farla, senza venir meno alle disposizioni di legge che la prevedono.

«Trovo che fosse un’intelligente idea di marketing, perché una società che deve fare profitti, deve anche trovare i modi per mettere i propri clienti nella migliore condizione. Detto questo, io non ho mai capito la guerra ideologica contro la tessera del tifoso. Personalmente, non avrei nessuna difficoltà a farla. Trattandosi di un’iniziativa che nasce con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza in assoluto, può anche darsi che sia più o meno efficace, ma è pur sempre qualcosa, in un calcio così in crisi e sempre a rischio di incidenti. Trovo quindi eccessivo farci una guerra di religione, ritenendola un’iniziativa antidemocratica e una schedatura. E’ come per le intercettazioni. Se qualcuno mi intercetta, non ho alcun problema».

Tornando alla sua passione per i colori giallorossi. Come nasce, sapendola nato a Roma ma dalle chiare origini sarde?

«In effetti, da piccolo, ero tifoso del Cagliari, la città di mio padre. Sono del ’62, e basti dire che nel ’70 la squadra di Gigi Riva vinse lo scudetto. Poi, però, fui portato a vedere una partita del Torneo Anglo-Italiano, con il Blackpool (la finale, vinta dalla Roma nel maggio del ’72, ndr). Fu sempre mio zio, grande romanista, a portarmi. Rimasi così colpito che, tornato a casa, annunciai a tutti di essere diventato tifoso della Roma. Da allora continuai ad andare, soprattutto con mio zio perché mio padre (Ignazio, grande maestro di giornalismo, ndr) non era tifoso, né appassionato di calcio. Ricordo che mi accompagnava allo stadio quando c’era Roma-Cagliari, ma durante la partita leggeva il giornale, che richiudeva nell’intervallo per parlare».

C’è qualche derby che ricorda in particolare?

«Uno è quello del sorpasso in classifica, nel ’75, con il gol di Prati. Ero piccolo, ma non lo dimenticherò mai. Sotto la pioggia battente… Con la Lazio che aveva lo scudetto sulle maglie». E tra quelli più recenti? «Quello di tre anni fa, con il gol di Julio Baptista. Perché è stato il primo derby che ho visto con mio figlio, che al tempo aveva dieci anni: nei suoi occhi ho rivisto la stessa emozione che avevo io quando segnò Prati…».