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(di Massimo Limiti) Accordo vicino, volontà delle parti per chiudere, ma il passaggio dell’AS Roma da Unicredit alla cordata americana capeggiata da Thomas DiBenedetto tarda ad arrivare.

Redazione

(di Massimo Limiti) Accordo vicino, volontà delle parti per chiudere, ma il passaggio dell’AS Roma da Unicredit alla cordata americana capeggiata da Thomas DiBenedetto tarda ad arrivare.

In città rimbalza anche la voce di un’idea da parte della banca di voler restare al timone. La patata bollente tenuta in mano per mesi ormai è tiepida. La campagna acquisti è stata già fatta, con il riscontro positivo della tifoseria, e senza cessioni pesanti, e qualcuno ha pensato seriamente a tenersi in mano ancora il giocattolo. Addirittura sarebbe pronto l’organigramma per un eventuale “piano B” con Claudio Fenucci come presidente.

Ipotesi ormai abbastanza allontanata dalle notizie delle ultime ore che parlano di un riavvicinamento delle parti sui milioni ancora in ballo, ma il timore da parte della tifoseria che l’affare saltasse c’è stato e fin quando non arrivano le firme resta sempre dietro l’angolo.

La storia ci racconta che quando una società di calcio resta in mano ad un istituto di credito, il destino è segnato. E non bisogna andare nemmeno troppo lontano per capirlo.

Quanto accadde alla Lazio è una testimonianza. Cragnotti fu fatto fuori a gennaio del 2003 quando  Geronzi (all’epoca numero uno di Capitalia) mise la Lazio nelle mani di Baraldi licenziato su due piedi appena questi decise di risanare sul serio la società: incassati 120 milioni di euro di aumento di capitale venne fatto fuori per far posto a Masoni, avvocato dello studio Ripa di Meana (membro del cda di Banca di Roma) alla guida della società.

I 120 milioni di euro dell'aumento di capitale sparirono in pochi giorni e la società accumulò in meno di un anno qualcosa come 200 milioni di euro di debiti.

Poi arrivò Lotito, per evitare il fallimento e anche che qualcuno mettesse il naso nei conti e vedesse quello che era successo. Giuseppe De Mita (proveniente dalla GEA), messo da Geronzi come Direttore Generale, se ne andò con una sontuosa liquidazione, passata inosservata. A Roberto Mancini (socio iniziale della GEA e stimatissimo nell’ambito della famiglia Geronzi) venne triplicato lo stipendio all'insaputa di Baraldi, come pure lievitò lo stipendio mensile di Masoni che si pensava lavorasse gratis. In quel periodo, poi, vennero accumulati debiti per oltre 7,6 milioni di euro, molti dei quali per consulenze legali.