Fateci caso. Era come se il suo viso assumesse sempre una posizione antalgica: Agostino Di Bartolomei doveva difendersi. Chissà da cosa, scrive Enrico Sisti su La Repubblica. Forse da niente (che in certi casi vuol dire da tutto). Agostino si è tolto la vita il 30 maggio di trent'anni fa, a dieci anni esatti da quella finale di Coppa dei Campioni che "non si è mai giocata". Ancora oggi a Roma celebriamo la breve avventura umana e sportiva di questo ragazzo che non è mai diventato giovane: anche a venticinque anni pareva aver già vissuto esperienze devastanti. Assai di rado Agostino si abbandonava. Era così. Accigliato perché vivo, cupo perché importante. Ancora oggi, dicevamo, la città e il mondo giallorosso gli dedicano eventi, accanto al suo nome si organizzano partite, tornei, dietro i quali c'è sempre un pensiero spontaneo, una vibrazione appassionata, un senso di appartenenza fortissimo. Come tanti calciatori nati negli anni Cinquanta ed esplosi negli anni Settanta, Agostino Di Bartolomei era "identitario". Nella Roma di Liedholm era il compasso che univa (e misurava) difesa e centrocampo e quel suo modo di interpretare il ruolo di regista difensivo divenne in un attimo esemplare e in un attimo sparì dalla circolazione.
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La Repubblica
Trent’anni senza Di Bartolomei regista libero e schivo
Agostino si è tolto la vita il 30 maggio 1994, a dieci anni esatti da quella finale di Coppa dei Campioni
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