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Platini: “La mia esultanza all’Heysel? Non la rifarei. Vivo con il senso di colpa”

Estratto del libro “Parliamo di calcio” di Michel Platini con Gérard Ernault.

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Dribblare, segnare, dribblare, segnare, dribblare, segnare. Ecco il calcio. Quando nel 1987 non ho più segnato sono rientrato a casa. Da quel giorno non avrei più messo la palla in rete. Non so se sono mai stato quel che tutti chiamano Michel Platini. Dal mio ritiro in poi, tutti gli impegni che hanno occupato i successivi venticinque anni mi hanno fatto dimenticare un po’ quello che ero stato da calciatore. Il destino mi ha dato la possibilità di passare da una passione all’altra.

E di dire che vi è un’età per ogni passione: a vent’anni si gioca, a trenta ci si allena, a quaranta si comanda, a cinquanta si presiede e a sessanta... si legge. Per certi versi sicuramente mi diverto più oggi. Penso di poter fare di più oggi per il calcio di quanto abbia saputo fare trent’anni fa. Ho approfittato della vita. Dal principio, in gioventù. Il calcio non era tutto. Mio padre me lo aveva insegnato: “Gioca per giocare”, dunque ho giocato per divertire e divertirmi: questa è stata la mia forza. Ho sviluppato quasi naturalmente, di fronte ai più grandi avversari, il tempo dell’anticipo, la malizia, l’astuzia. E l’arma migliore: il dribbling.

Con il passare degli anni ho cercato maggiormente la semplicità. Si può risolvere un problema senza avventurarsi in uno scenario complicato e individualista. Io dribblavo per andare in porta quando non disponevo di un’altra soluzione facile. Il mio dribbling era “lungo” per ragioni di efficacia. Una finta breve non ti assicura il superamento definitivo dell’avversario, che può sempre prenderti la maglia, i pantaloncini, starti addosso. Quando lo superi con un dribbling lungo è come un “ciao e arrivederci”.

L’erba dove sei passato non cresce più, ma per il tuo avversario. Ripensandoci, avrei potuto essere più veloce nella corsa. Fisicamente non ero così male, anche se non ero né Cruijff né Maradona né Pelé. E se dicono che ero un giocatore completo tecnicamente, io non smentirò. L’insieme era al servizio di una visione, di una percezione o, piuttosto, di una capacità di registrare tutti gli elementi che compongono il paesaggio, il panorama, che ti danno una proprietà di controllo che, secondo me, è il primo vantaggio, a volte decisivo, nel gioco.

"BISOGNAVA SOPPORTARMI -  Avrei potuto giocare come Pirlo. Con il binocolo. Ma non concepivo una partita senza cercare il gol. A dieci anni avevo segnato ventiquattro gol nella stessa partita tra i due alberi di castagno della scuola. Era una vocazione, ero nato attaccante, diventai numero 10 per caso. Dovetti sostituire un numero 10 e così feci, diventando un 9 e mezzo.

"Ho amato tutte le maglie, tutte le squadre nelle quali ho giocato. Le ho amate non come un felice imbecille, anche se a volte questo mestiere lo suggerirebbe. Non ci si abbraccia o ci si bacia sulla bocca dovunque e comunque. Ci si spia, si è gelosi, ci si detesta anche. Bisognava sopportarmi e bisognava che io sopportassi gli altri. Le squadre sono collettivi che non si scelgono uno con l’altro ma devono vivere e agire in comunità. Le squadre lavorano come in un patto sociale. È il rispetto di questo contratto che costituisce il valore di una squadra. Non ci sono squadre che se la vivono e se la giocano facilmente.

"

"IL CIELO NERO DI BRUXELLES - Sul mio comportamento all’Heysel uno potrà pensare quello che vorrà, ma sulla purezza no, no, no. Ho già rivelato un giorno che, sapendo che c’erano dei morti e avendoli come cancellati dal mio spirito o respinti, ecco che il mio gesto mi sembrava oggetto di psichiatria. L’ho ribadito a Marguerite Duras qualche mese dopo. Se il mio comportamento era sintomo di una “scienza” particolare, questa era più la psichiatria che la filosofia. Se si va sul terreno della psichiatria si scopre che gli uomini non sono degli eroi, figuratevi gli sportivi.(...)