La Roma ha trasformato il gioco delle tre carte nel gioco delle tre partite. Storia vecchia. Disco rotto. La solita sceneggiatura in cui ad un certo punto qualcuno, chissà chi, fischia e il gruppo smette di colpo di fare quel che stava facendo, scrive Enrico Sisti su La Repubblica. Paralizzato, cristallizzato. Giovedì sera in Norvegia la Roma aveva iniziato giocando. Sempre a modo suo, per carità: ossia giocava quel suo gioco grigio e sporco. Tuttavia per il livello della contesa era più che sufficiente, anche perché un pareggio sarebbe andato bene. Era bastata un’illuminazione di Mkhitaryan e Pellegrini, sodali efficaci nel breve volgere di un paio di secondi, per portarsi avanti. Poi la consueta nemesi: ciò che avrebbe dovuto fortificare e alzare l’attenzione ha in realtà assopito, smontato. Insomma, invece di insistere ci si accartoccia. Quando la posta si alza, la Roma ha sempre i minuti contati. Nel secondo tempo si son viste gambe che non giravano più, la nebbia aveva invaso le idee, la fantasia, anche minima, era uscita dal campo. E quando è così la Roma comincia a inanellare errori tecnici. Una condanna. Ieri Rui Patricio e quell’amnesia collettiva (ma forse si dovrebbe parlare di anestesia collettiva) che ha consentito il raddoppio su calcio piazzato. Il Bodo è il Bodo. Ma la Roma è la Roma. Il sintetico non c’entra. Quindi c’è da preoccuparsi. Se vale la regola del gioco delle tre partite in una, delle tre anime sovrapposte, non è per nulla scontato che la settimana prossima si riesca a vincere con due gol di scarto, magari ai supplementari.
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