Alan Ruschel è uno dei tre calciatori sopravvissuti al disastro aereo che nel novembre scorso ha distrutto la Chapecoense. Dei tre è l’unico tornato a giocare ed ha giocato 36 minuti al Camp Nou contro il Barcellona, l’8 agosto. Stasera sarà titolare nell’amichevole all’Olimpico contro la Roma (20.45, diretta Sky). Presidierà la fascia e sarà capitano. Farà quello che potrà, per quanto tempo il suo corpo ancora martoriato ma splendidamente vivo gli permetterà. Ha tagli dovunque, i chirurghi colombiani che lo salvarono dalla morte l’hanno ricucito in dieci punti. Ha alcuni tatuaggi dedicati alla vita e all’amicizia. Ora sorride sul campo delle Tre Fontane, all’Eur, l’antica casa del rugby ridata allo sport dopo anni di abbandono. I compagni lo chiamano, l’allenamento è duro, corsa, pallone, ripetute, come riporta Cito su La Repubblica.
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Il ritorno alla vita di Ruschel: “Quel buio dentro l’aereo e la luce rivista al Camp Nou”
Il brasiliano: "Aprirò una scuola calcio. Il pallone continuerà ad essere la mia grande gioia"
Lei ha detto: Se non posso essere trattato come un calciatore vero, preferisco smettere.
Non voglio pietà, non voglio giocare per grazia ricevuta, solo perché sono “uno dei tre sopravvissuti del Cerro Gordo”. No, io voglio giocare come sapevo e voglio tornare a quei livelli.
Siamo sulla strada giusta?
Il Camp Nou mi ha detto di sì. Devo continuare a lavorare con i miei compagni, non devo fare altro.
Si può sopravvivere a un incidente aereo, ed è già un miracolo. E tornare in campo, cos’è?
Non so se esista qualcosa al di là di un miracolo, al di sopra. Avrei voluto chiederlo al Papa, ma l’emozione era enorme. L’incontro con lui sarà un ricordo che mi porterò dietro per la vita intera.
Cosa ricorda dell’incidente?
Un senso di vuoto e le luci che si spengono all’improvviso. Ero seduto nell’ultima parte dell’aereo, volevo allungare le gambe e dormire, andavamo a Medellin a giocarci la Copa Sudamericana, reduci dalla partita contro il Palmeiras. Eravamo stanchissimi. Jakson Follmann mi chiese due, tre volte di raggiungerlo un po’ più avanti, più o meno al centro dell’aereo. Forse è stato Dio a parlare attraverso di lui, anzi ne sono sicuro. Tutto questo è accaduto mezz’ora prima del buio. Dopo non ricordo più nulla. Mi hanno detto che per 72 ore sono stato lì, sulla montagna, tra il fango e la neve, ma non so nulla e nemmeno posso giurare che tutto quello sia accaduto. Mi sono risvegliato in ospedale con la colonna vertebrale rotta in diversi punti.
Ha saputo subito che 19 dei suoi compagni erano morti?
No, me l’hanno detto poco alla volta i miei familiari, attraverso anche l’intervento di uno psicologo.
Ha mai rivisto le immagini del funerale dei suoi compagni di squadra, all’Arena Condà?
È stato il grande abbraccio del nostro popolo a 71 eroi, ai miei 19 compagni e a chi è morto con l’amore nel cuore per la Chape.
Cosa pensa della vita, del destino, della fortuna?
Dall’istante in cui sono tornato vigile e conscio di quello che era accaduto, ho deciso che la vita va vissuta intensamente senza rimandare nulla. Non sai quel che può accaderti. Devi cercare, potendolo, di vivere “forte”.
Quante volte ha ripensato alle parate di Danilo contro il San Lorenzo, nella semifinale della Copa: senza, niente sarebbe accaduto.
Danilo era uno dei miei più grandi amici ed è stato un grandissimo dolore apprendere della sua morte. Ma così doveva andare, era scritto. Dio mi ha aiutato e mi aiuta ancora a non avere incubi e nemmeno rimpianti.
È mai tornato in Colombia?
Sì, un paio di volte, ma mai nel luogo dell’incidente. Sono andato a Medellin a ringraziare l’equipe medica che mi ha salvato. Oltre a loro, mi hanno salvato la mia famiglia, i miei due figli, il mio mondo.
Come lo immagina il suo futuro, la vita dopo il ritiro?
Resterò nell’ambiente, forse aprirò una scuola calcio. Il pallone continuerà ad essere la mia grande gioia.
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