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Garcia, un francese a Roma: “Io, da Platini a Totti sul filo dell’equilibrio”

(La Repubblica – E.Audisio) Rudi Garcia, 49 anni, allenatore, un misto di cose. Nome tedesco, lo scelse il padre, appassionato di ciclismo, in onore di Rudi Altig, campione su strada e pistard.

Redazione

(La Repubblica - E.Audisio) Rudi Garcia, 49 anni, allenatore, un misto di cose. Nome tedesco, lo scelse il padre, appassionato di ciclismo, in onore di Rudi Altig, campione su strada e pistard. Cognome spagnolo, dell’Andalusia, comune di Garrucha, paese di “sol y gambas”, sole e gamberi. Nascita in Francia, a Nemours, un castello e un fiume, nel nord. Faccia un po’ alla Van Basten, anche se Garcia da giocatore è stato più modesto. Uno scudetto e una Coppa di Francia vinti nel 2011 a Lille, con una squadra di giovani. Da un mese e mezzo a Roma nella Roma.

Prima sua esperienza professionale all’estero. Garcia, lei è il primo francese ad allenare in serie A.

«Giusto. Deschamps arrivò sulla panchina quando la Juve era in serie B. Cosa significa? Che la Francia non ha mai fatto molto per illuminare i suoi tecnici, anche se ora le cose sono cambiate. In più l’Italia ha sempre avuto un’ottima scuola di allenatori. Qui c’era il calcio che contava: venivamo e venivano da voi a giocare e ad imparare, non all’incontrario. Anche se negli anni Ottanta la nostra nazionale arrivò quasi in cima. Nell’82 voi campioni, noi quarti».

Uno spagnolo in Francia?

«Per fame. In cerca di lavoro. La mia famiglia tanto tempo fa si spostò per una vita migliore, ma nelle Ardenne, al nord della Francia. Abituarsi al tempo, poco mediterraneo, non è stato facile. Il paese delle mie origini in Andalusia, è Mojacar, pesca e mare. Siamo due figli, mia sorella e io, più piccolo. Papà ex calciatore, faceva l’allenatore».

Figlio d’arte. 

«Non in quel senso. Papà a casa non c’era mai. Non per cattiveria, ma perché lavorava. Soprattutto nei fine settimana. Allenamenti, trasferte e partite. Avevo 14 anni, quando sei piccolo non capisci, ma patisci le assenze. E allora mi sono detto: io quel mestiere lì non lo farò mai. Chissà, forse mi imponevo di prendere le distanze da qualcosa che mi attraeva. Lo ammetto: non sono un tipo da certezze. Non le ho, non ragiono per partito preso. Preferisco il termine convinzioni. Sono duttile, ho alcune regole, ma il buon senso è quasi sempre la tattica migliore».

Però ha fatto il calciatore.

«Sì. Ho smesso a 28 anni per problemi alla schiena. Ero curioso, chiedevo, cercavo di capire, m’interessavo al contorno. E soffrivo dei silenzi. L’incomunicabilità non mi piace. Mi chiedevo: perché il mio allenatore non mi parla, non mi dice, non mi spiega? Oddio, non è che avessi un buon carattere. Ero fiero di guadagnare, non erano grosse cifre, quelle di un salariato normale, ma da ragazzo poter campare con la tua passione è miracoloso».

Per questo ora sostiene che un coach debba essere attore?

«Deve esprimersi, farsi capire, comunicare. A più livelli. Non c’è solo il mondo dentro, ma anche quello fuori. Deve interpretare vari ruoli. Essere padre, capo, fratello, difensore. E soprattutto deve amare i suoi giocatori, ricordarsi chi sono e cosa possono diventare. Senza mettersi in competizione con loro. Quello che più mi disturba in questo momento è la mia scarsa capacità di espressione. Capisco la lingua, ma io voglio per me ricchezza di termini e sottigliezze. Ora non ne ho e mi sento limitato. Però mi applico, di notte studio la grammatica».

Lei in squadra vuole un comitato di saggi.

«Giusto. Saggi, non saccenti. E’ mia abitudine scegliere un gruppo di giocatori, 5-6, con cui lavorare e gestire il comportamento e le difficoltà dell’intero gruppo. Prima li scelgo e li nomino, dopo lo racconto alla stampa. Non sono tipo che sussurra ai giornali cose che ancora non ho detto nello spogliatoio».

Giocatore preferito?

«Platini, ovvio. Per i mezzi, perché il numero 10 classico ha fascino, per la sua visione di gioco, perché era il migliore, per la capacità di regia».

Ci risiamo, magari con la Dolce Vita.

«No. Il mio film preferito è Invictus. Insegna molte cose. E anche Il Gladiatore. Ognuno ha il suo ruolo. Ai giocatori lo dico: nello spogliatoio quando vi mettete calzoncini e maglietta, vi cambiate, diventate altri. Non mi interessa vita privata, problemi, tormenti, quelli vanno appesi con le vostre giacche».

Lei ci riesce? 

«No. Il mestiere dell’allenatore non ti lascia. E’ per 24 ore , sette giorni a settimana, difficile andare a letto senza rimuginare. Non mi lamento, va bene così. Quello che va male sono i troppi soldi dati ai giocatori alle prime armi. Non hanno mai fatto niente e sono già ricoperti di denaro. Un portafoglio di illusioni. Dov’è la morale?». 

Cos’ha pensato quando ha visto la testata di Zidane a Materazzi?

«Che l’uomo può essere debole, fragile, ma che niente cancella il tuo passato in campo. Per la Francia Zidane non è quello della testata, ma delle grandi giocate». 

Lei allenava a Lille, 200 mila abitanti, due giornali locali. 

«La regione ne fa di più. E sì, due fogli locali, qualche volta l’Equipe e France Football. Avete presente il film “Benvenuti al nord”? Pioggia, freddo, grigio. Dove si dice che si piange due volte: quando si arriva e quando si parte. Ma appena filtra un raggio di sole, tutto si scalda. Persone calde, amichevoli. Prevengo la domanda: Roma è diversa, ma io non leggo, ho amici italiani che lo fanno per me e qualche volta mi raccontano. A Roma prima di ora ero venuto solo una volta in vacanza. E sul fatto che si discuta per una settimana su 5 centimetri di palla fuori o dentro, rispondo che sono favorevole alle nuove tecnologie in campo. Se ci sono perché non adoperarle? Le risse continue non fanno bene a nessuno».

Lei è francese, allena a Roma, la proprietà è americana. 

«Infatti sono andato a conoscere il presidente Pallotta a New York. In quattro giorni la mia vita è andata rapida. Ho trovato una persona umana, interessata allo sviluppo del marchio, che lavora con un grande staff. Vuole vincere, chiaro, ma ci vuole tempo. Quello che mi ha colpito è la sua cantina pazzesca, da collezionista di vini. Bottiglie e generosità straordinarie. Non abbiamo solo ammirato, ma anche bevuto».

Me se il suo vice Bompard è astemio. 

«Non beve vino, è vero. Solo champagne. Non ne ha potuto fare a meno, dopo tanti anni a Reims. Io invece mi sto appassionando al Sangiovese».

E l’altro, Fichaux, vede il primo tempo delle partite in tribuna.

«Mi piace l’imparzialità. Essere lucidi è una prova d’intelligenza. E da sopra l’incontro si vede in maniera diversa, meno viscerale, con una visuale più larga e generale. Non hai un angolo troppo stretto. Movimenti, tempi, posizione in campo, velocità di entrata, falli. Poi Fichaux scende e riferisce. Nella mia vita ho fatto anche il commentatore tv a bordo campo. E lì che ho capito che essere obiettivi è un merito».

Squadra che finora le è piaciuta di più.

«La Juventus». 

Sicuro di dirlo? 

«I suoi giocatori hanno uno spirito di squadra straordinario. Si aiutano, si appoggiano, si proteggono. Corrono per gli altri, dove non arriva uno, c’è il compagno. I Tre Moschettieri applicati al calcio. E’ la voglia di esserci e di contare di tutti che ne fa una squadra sopra la media».

Anche tifo e razzismo nel calcio italiano sono fuori della media. 

«Ci vuole un’evoluzione, una presa di coscienza, videosorveglianze efficaci. Chi fa il razzista allo stadio lo è anche nella società. Non credo alle metamorfosi. Un anno senza partita? Troppo poco. Per tutta la vita devi stare fuori. E alle famiglie, al genitore solo, che lavora e non ha tempo, senza colpevolizzare nessuno, dico: non abdicate all’educazione dei vostri figli, non fatevi vincere dalla pigrizia culturale».

Con lei la Roma inizia per la quinta volta un campionato con un allenatore diverso. 

«Nel mondo di oggi si sceglie e si cambia. Vince chi è più duttile, chi si adatta, bisogna essere capaci di rinnovarsi, non avere paura di fare nuovi incontri. Avere esperienze diverse è una ricchezza, non una debolezza».

Mettiamola così: Ferguson, 27 anni al Manchester, è uno scemo?

«No che non lo è. Evidente. C’è stata una sintonia perfetta tra uomo e società, la fedeltà va rispettata. Anche io ho fatto 11 stagioni al Lille, anche se non di seguito. Ma quando non c’è più unità di programmi, meglio separarsi, che non tirare avanti in nome del passato».

Abiterà a Roma?

«No, nella zona di Trigoria. Un’ora di traffico non la sopporterei. Mi piace stare vicino al campo. Sono venute a trovarmi le mie figlie: 14,17, 22 anni. Siamo andati insieme a vedere e a emozionarci davanti alla Cappella Sistina. Ancora me lo posso permettere».

Lei viene dallo stesso paese del funambolo Philippe Petit.

«Ho visto la sua camminata su un filo teso tra le Torri Gemelle. E’ quello che dico io: l’equilibrio è tutto».