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De Rossi, l’addio del gladiatore nella città che perde i simboli

LaPresse

Il rapporto incrinato tra la società giallorossa e Roma, complici le scelte di mercato, i risultati e le alterne vicende dello stadio. Nel gran rifiuto del calciatore il declino del calcio scaccia guai

Redazione

Per un giorno la capitale pallonara ha smesso di affannarsi dietro al calciomercato, al totoallenatore, al "famo ‘sto stadio", scrivono Lorenzo D'Albergo e Luca Monaco su La Repubblica. Ma che importa della Champions, dell’Europa. Riflettori puntati su Daniele De Rossi.

L’ultimo tackle, davanti al resto della squadra, De Rossi lo ha condito con parole pesanti. Sconvolgenti per i meccanismi della Roma e di Roma. L’addio stavolta è indigesto. Quello di Totti, seppur imputato ai litigi con l’ex mister Spalletti, è stato metabolizzato. Troppi 40 anni per continuare a stupire. Il saluto di De Rossi, invece, è uno schiaffo. È la privazione inattesa del simbolo. La bandiera che, senza un perché, smette di sventolare.

Peraltro nel nome di una rivoluzione a cui ha già detto «no» Antonio Conte, stracorteggiato big della panchina. Inevitabile effetto del commiato, la presa di coscienza collettiva. Il tifo giallorosso, forse mai tanto compatto, chiede trofei. E, siccome i titoli non sono mai arrivati con la gestione americana di James Pallotta, fino a ieri si era accontentato del trofeo della romanità: "De Rossi il nostro vanto". Ora il petto è sgonfio.

Gli ultrà sono confusi. Hanno convocato un sit in a Trigoria per sabato mattina. Ma la squadra sarà in Emilia, per la sfida con il Sassuolo, e gli uffici della società sono all’Eur. I dirigenti, appunto.

De Rossi, concentrato di passione giallorossa con un papà mister della primavera, per i tifosi resta un modello. I primi calci sulla spiaggia, la fama, il privilegio di difendere i colori della sua città. Il distacco fa male, risveglia gli istinti di chi aspetta stadio e vittorie da dieci anni. Tutto fermo, tranne le vele sangue e oro.