Leandro Castan, nato 30 anni fa a Jaù, stato brasiliano di sanPaolo, è rinato già due volte durante la sua carriera. La prima, il 3 dicembre 2014 a Roma, dopo l’intervento chirurgico con cui gli venne asportato un cavernoma cerebrale. La seconda rinascita è invece calcistica e la sta vivendo con la maglia del Torino: «Un mese fa, nella partita contro la Lazio, forse la migliore da quando sono al Toro, ho capito che stavo tornando quello di prima, anzi più forte». Castan, ex difensore della Roma, si racconta così a Mathieu de La Repubblica: «Sono giorni tristi, per la tragedia aerea in cui sono morti i ragazzi della Chapecoense: un paio di loro avevano giocato insieme a mio fratello Luciano nel Ponte Preta. Non ci sono parole, solo dolore».
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Castan, la rinascita senza limiti: “Non ho più paura di giocare dopo aver vinto quella di morire”
Dopo due anni bui l'ex difensore della Roma sta vivendo una grande stagione con la maglia del Torino, tornando a giocare sui livelli di quando il brasiliano guidava la retroguardia giallorossa
Tragedia sentita in modo particolare qui a Torino…
«Sono stato a Superga con la mia famiglia, senza dirlo a nessuno. Mi sono emozionato davanti alla lapide del Grande Torino e lì ho capito tante cose di questa squadra, di questa città. Abbiamo molto in comune: conosciamo la sofferenza, abbiamo uno spirito guerriero».
Ci parli della sua sofferenza.
«Mettiamola così: due anni fa ero uno dei cinque difensori più forti della serie A, poi all’improvviso sono diventato un ex giocatore con la paura di morire. Ora che tutto è passato so di avere una nuova consapevolezza».
Ovvero?
«Quel che ho passato mi ha cambiato come uomo e come calciatore. Ho una percezione diversa di ciò che mi succede, della vita stessa. E ho riscoperto Dio».
Domani saranno due anni dal suo intervento e 110 anni dalla fondazione del Toro.
«Penso di essere nel posto giusto: sto scoprendo l’amore dei tifosi, la loro passione è speciale».
Domenica invece la sfida con la Samp dove è transitato per un mese appena, in estate.
«Periodo strano… ma non voglio fare polemiche. In fondo è stato meglio così, per arrivare dove sono adesso. E dove tutti, dal presidente Cairo a Petrachi e Mihajlovic hanno dimostrato quanto tenessero a me».
Domenica ricorre un altro anniversario: 5 anni dalla morte di Socrates. Lei era in campo quel giorno: vinceste il titolo e onoraste la sua scomparsa…
«La notizia della morte ce la diede la mattina Paulo André, nostro compagno di squadra e amico di Socrates. Che era una figura speciale, soprattutto per noi del Corinthians. Il nostro allenatore, Tite, ci chiese di vincerlo anche per lui quel titolo. E così avvenne. Come desiderava Socrates, che aveva detto di voler morire nel giorno in cui il suo Corinthians fosse tornato a vincere».
Torniamo all’autunno 2014.
«Settembre, giochiamo a Empoli, ma vengo sostituito: ho le vertigini, sto male. Le cose peggiorano nelle settimane successive: non mi reggevo in piedi, vomitavo di continuo. D’accordo con la Roma parlammo di malanni muscolari, ma stavo a pezzi. Persi quasi 15 chili, ero terrorizzato. Mi stavo convincendo che sarei morto, continuavo a sottopormi a visite e controlli».
Fino all’operazione, quasi tre mesi dopo..
«La stessa mattina in cui me ne parlarono mia moglie scoprì di essere incinta della nostra bambina. Il medico disse che senza intervento chirurgico non avrei più potuto giocare. Ma io volevo solo tornare in Brasile, mollare tutto. Ero confuso».
E poi?
«Presi una settimana per pensarci. Ti passa ogni cosa per la testa in quei momenti. La paura si moltiplica. Altri medici confermarono: l’operazione era l’unica soluzione. E io accettai, per tornare a giocare».
Passò la paura?
«Tutt’altro. Ricordo il terrore in ospedale, la sera prima dell’intervento. Al risveglio sentivo tutto, ma non riuscivo a muovermi. Mia moglie era lì, al mio fianco. Due giorni in terapia intensiva: i più duri della mia vita. Ripetevano che l’operazione era riuscita, ma io mi chiedevo se sarei davvero tornato come prima».
Il rientro in campo con la Roma, nella scorsa stagione non fu facile…
«Forse affrettato. Ma volevo dimostrare che non avevo paura di giocare, dopo aver superato quella di morire. E il campo mi mancava troppo, perché lì io mi trasformo e sono davvero felice».
Cos’è la felicità per un difensore centrale?
«L’anticipo, l’entrata in scivolata. Quando tornai ad allenarmi venivo regolarmente saltato, era frustrante. In realtà mi serviva tempo. Avevo bisogno di fiducia: quella che ho ritrovato qui a Torino».
Cosa c’è nel futuro del Torino e di Castan?
«Ho imparato a pensare giorno per giorno. E partita per partita. Credo che questo Toro abbia qualcosa di speciale, si è creata l’alchimia giusta tra di noi. Vogliamo l’Europa, questo sì. E vorrei restare a lungo in granata».
Tra una settimana il derby…
«Partita speciale, ovvio. Vogliamo vincerlo. E lo dico nel rispetto della Juve, squadra fortissima di campioni veri. Ma in campo si va in 11 contro 11: può succedere qualsiasi cosa…».
Se si guarda indietro ha dei rimpianti?
«No. Penso di essere stato fortunato a vivere questa vita. Anche se ho sofferto. Prima dell’intervento non facevo molte cose di mattina. Ricordo le litigate con Zeman e le sue “colazioni obbligatorie”: gli dicevo che la mattina è fatta per dormire, non per mangiare… Oggi invece mi sveglio presto e accompagno i miei figli a scuola, vado a fare la spesa con mia moglie. Penso sia tutto bellissimo. Anzi, so che la vita è bellissima».
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