(Il Romanista - M.Izzi) La prima cosa che mi è venuta in mente dopo la drammatica notizia di Pescara sono le parole di Walter Sabatini: «Non passa un giorno che io non pensi almeno una volta a Renato Curi».
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Sabatini e il ricordo di Curi
(Il Romanista – M.Izzi) La prima cosa che mi è venuta in mente dopo la drammatica notizia di Pescara sono le parole di Walter Sabatini: «Non passa un giorno che io non pensi almeno una volta a Renato Curi».
E’ il segno indelebile di un dolore, per una morte sul campo, che è impossibile da assorbire. Il calcio è vita, entusiasmo, esuberanza atletica, la morte è un non senso in agghiacciante contrasto. Viene la voglia di mollare tutto, dedicarsi ad altro. Ci penso, aiutato dalle scartoffie che avevo consultato per tutt’altro articolo, per tutt’altra giornata …
Questo orribile 14 aprile cadeva a dieci anni esatti da un Roma-Parma che vedeva il ritorno all’Olimpico di Hide Nakata. A soli 30 anni, il giapponese dello scudetto ha mollato tutto, stanco non del calcio, ma del circo mediatico, degli alberghi, dello stress, ed è partito per un viaggio intorno al mondo. Come raccontò all’Equipe nel gennaio 2008, dal Laos alla Cambogia, dal Vietnam alla Giordania, fino ai confini dell’Iraq, in un campo profughi: «La gente ha paura di quei posti perché non sa che oltre alla guerra c’è gente stupenda. Se si viaggiasse di più ci sarebbero meno pregiudizi idioti. Ogni tanto continuo a giocare. Ho sempre la stessa passione da quando ho dieci anni. Per me è altrettanto piacevole giocare a piedi nudi per strada o in uno stadio mitico. E poi giocare una partitella è il modo migliore per farsi degli amici, viaggiare, scoprire il mondo vero».
Scoprire il mondo vero, con uno zaino in spalla e viverla davvero la vita, fino in fondo, perché quando ti ritrovi davanti a storie come questa, le parole, fatalmente vengono meno. La morte e il calcio, dicevamo, un ossimoro straziante, inconciliabile. Capisco, da questo punto di vista quello che scriveva George Best nella sua autobiografia: «Nell’Irlanda del Nord, quando muore qualcuno, tutta la famiglia si riunisce e la bara viene lasciata aperta perché tutti possano dare l’ultimo saluto alla salma. Ma il giorno del funerale solo gli uomini vanno al cimitero e poi al pub, mentre le donne restano a casa a preparare da mangiare. (…) Io non ho mai visto un cadavere e non credo lo farò mai nemmeno in futuro». Che si voglia vedere o no, però, questa realtà è sotto gli occhi di tutti. Nella sua storia la Roma, fortunatamente, ha solo sfiorato drammi di questa entità. Sia Manfredonia, sia Nela, in circostanze diverse e per una serie di motivazioni contingenti assai sfortunate hanno rischiato seriamente la vita.
In entrambi le occasioni Giorgio Rossi e la presenza di efficaci presidi salva vita sventarono l’irreparabile. C’è poi il ricordo indelebile e necessario di Giuliano Taccola, morto non in campo ma ma a Cagliari dove aveva comunque seguito la squadra il 16 marzo 1969, ancora troppo forte e troppo giovane per tutto, soprattutto per morire. C’è un parallelo che ci sentiamo d’imbastire, riguarda la prematura e tragica scomparsa del giovanissimo Mario Forlivesi. In quella circostanza però, il diciottenne (aveva debuttato in prima squadra, sostituendo lo squalificato Amadei a 16 anni…), venne stroncato da un male tremendo fuori dal campo di calcio. Il ricordo della vicenda umana di Forlivesi, (talento sbocciato nelle file della Fortitudo, esattamente come Attilio Ferraris prima di lui e come Francesco Totti tanti anni dopo) un predestinato costretto ad arrendersi ad un destino mai così spietato, è quanto di più vicino siamo capaci di accostare alla pena infinita di queste ore. Per trovare una conclusione, per niente facile, ricorro a un brano di Fenoglio.
Fenoglio, che oltre ad essere stato uno dei più grandi esponenti della letteratura italiana del ‘900, è stato anche un grande appassionato di calcio. Tifoso juventino e della Nazionale, calciatore praticante (d’estate, d’inverno il gelo che s’impossessava delle Langhe lo costringeva a giocare a basket), Fenoglio chiudeva il suo “Primavera di bellezza”, con una morte improvvisa, inaspettata e per questo ancora più sconvolgente: «Il tedesco veniva – una faccia giovane e una vecchia divisa (…). Johnny percepì un clic infinitesimale. Girò gli occhi dal tedesco al vallone. Vide spiovere la bomba a mano del sergente Modica e le sorrise».
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