(Il Romanista - T.Cagnucci) Ancora deve cominciare e c’è già un ritornello: «Zeman l’hanno preso mica perché so’ convinti ma perché così se tengono bona tutta la piazza».
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“Sono della Roma”
(Il Romanista – T.Cagnucci) Ancora deve cominciare e c’è già un ritornello: «Zeman l’hanno preso mica perché so’ convinti ma perché così se tengono bona tutta la piazza».
A Roma sono in molti a sostenere questa ipotesi, per cui Baldini e Sabatini come dei perfetti cretini avrebbero un tornaconto che è qualcosa a metà fra un autogol e un paradosso: passare per pavidi, per gente che rinuncia ai progetti, anzi al famoso progetto, come se improvvisamente avessero paura dell’impopolarità, loro che hanno portato Luis Enrique da Gijon a cercare di far giocare dieci giocatori nell’altra metà campo, loro, uno con un curriculum da Don Chisciotte e l’altro con una faccia e con la poesia feroce di Bukowski. Come se la piazza di Roma si possa rabbonire. Roma ha sperculato papi e imperatori, ha cestinato con nonchalance miti e allenatori; la piazza di Roma è piazza vera, quella che sta in fondo alla strada, da sampietrino e da sercio - sempre pronto per il primo Golia che passa – è una piazza sdraiata tra la bellezza e la storia che ha visto troppo malaffare banchettare sui marciapiedi: non la cojoni così. «Che vai cercanno dotto’?» disse l’usciere di Cinecittà la prima volta che vide Fellini e Fellini ci girò “Roma”.
Perché questa è Roma. Altro che Sparta. Un altro film. Altro che una scelta facile. Il vero paradosso è proprio questo: la scelta di Zeman sta passando per comoda, una pisciatina. In fondo in fondo anche questo è quasi un miracolo. Vuol dire che si dà per scontato che Baldini e Sabatini siano personaggi che con i Moggi di questo mondo ovviamente non hanno niente a che spartire. Come se fossero naturalmente in sintonia col sentire del Boemo, con le sue convinzioni feroci, poetiche, trasparenti, pure, pure e poi pure. Insomma nessuno s’è posto il dubbio: ma uno così va bene a due così? Perché la risposta è talmente sì, da non esserci domanda. Questo è bello. Ma è un Why e un Because(omaggio all’Albanese che l’ama tanto) che va dialettizzato, non dimenticato. Quando Zeman fu cacciato da Roma Sensi fu quasi costretto a farlo, la pronunciò pure questa costrizione: «Con Capello siamo meno nemici del Palazzo».
Adesso si dà talmente per scontato che la dirigenza della Roma sia altro da pratiche supine e schifose di corridoio che Zeman è persino diventata una scelta comoda. Come se prendere un allenatore che è stato esiliato, mobbizzato, calunniato, infamato da tutto un sistema per almeno un decennio (l’hanno mandato al Bosforo al confino tra due continenti per il sadico gusto di fargli provare la paura del precipizio) con zero trofei nell’Albo d’Oro della storiografia ufficiale, quella scritta dai cosiddetti vincitori (per lo più gente che s’è saputa vendere e piegare tanto da ricevere un premio o un bel posto di lavoro) sia addirittura una decisione a favore di vento. Come se Zeman fosse la maggioranza che sta, la convenienza, come se Zeman non fosse Roma. Eccola la bellezza di tutta questa storia, sta in un sillogismo: Roma è naturalmente zemaniana.
Che lo siano anche Baldini e Sabatini è un’implicitazione che però non va banalizzata, ma celebrata, condivisa, capita, spiegata vele al vento. In controvento. Zeman è la Roma, quella di Baldini e Sabatini non è stata nemmeno una scelta, e Zeman non è stato nemmeno un ritorno. Qualcosa di più. Di diverso. Di romanista. Di zemaniano. Il ritorno semmai Zeman l’ha fatto a Foggia l’anno scorso.
Il ritorno è un viaggio al punto di partenza. Una O. Da Zemanlandia a Zemanlandia. Il ritorno è un’andata e ritorno, è un qualcosa di economico, un dare e ricevere. E’ il viaggio di Ulisse, la O di Odissea. Ma poi Ulisse una volta tornato a Itaca ha sentito la nostalgia di quello che poteva ancora vedere. Non ci si è fermato. Per Zeman la Roma è sempre stato un andare più in là, la O di Oltre semmai. Più che la tela di Penelope qualcosa a metà fra la ragnatela di Liedholm e quella di Spalletti che era punk.
E’ sempre stato così da quando quel maggio lì venne per la prima volta – la prima grandissima mossa di Franco Sensi che in un colpo cortocircuitò tutta quella lazialità antistorica che stava montando persino a Roma - e fece l’inchino ai tifosi della Roma facendo vedere persino il cuore oltre all’arte suprema del suo giocare. Zeman è uno che andava a vedere la Roma quando non lo facevano allenare. Da tifoso fra tifosi, tutti in piedi sul banco per lui, Maestro dell’Attimo Fuggente che non è mai fuggito. Rieccolo qui perché non se n’è mai andato. Sull’Aventino casomai ce l’hanno spedito ma lui da lì s’è messo soltanto a vedere meglio Roma, che dà lì – se possibile – è ancora più bella. S’è innamorato e non l’ha dimenticato. Non è nemmeno un merito, ma una condizione. Se sei romanista lo sei per sempre. Non è stato un ritorno e non è stata una scelta, ma qualcosa di fisiologico, di dovuto – nella maniera meno scontata e più imprevista possibile – come un’attrazione magnetica («il calcio attrattivo» raccontato da Baldini), qualcosa che assomiglia alla marcia dei pinguini, che senza mappe, indicazioni, strade e vie, si ritrovano a distanza di anni nello stesso punto, allo stesso momento, tutti insieme. Zeman alla Roma è in Natura. Ed è Cultura. Sintesi hegeliana. Percorso da uomo. Quello di Zeman è iniziato in Italia proprio da Cinisi, il paese dei cento passi. Senza fare accostamenti esagerati, la mafia anche Zeman l’ha denunciata. Nel calcio. E l’ha pagata. La paga ancora. Forse la pagherà. Ma a Roma sarà qualcosa di sublime farlo insieme. Con questa Roma che ha come unica grande preoccupazione quella che dovrebbero avere tutti: la rivoluzione.
Questo è il progetto che gli piace tanto. Ah sì, la cosa più bella di ieri, ieri che è già domani, è stata che l’uomo delle pause, dei grandi silenzi, delle smorfie eleganti, lo strutturalista della Scuola di Praga che svuota luoghi comuni e modi dire, è stato lui a dire: «Io credo al progetto». Mi sa che non l’ha fatto per rabbonire la piazza.
O no? Io credo in Zdenek Zeman. La bandiera che puoi tirare fuori sempre. Se sei romanista sei contro, sennò sei qualcos’altro, magari bello e bravo, ma non romanista. Se sei romanista tutto questo ti galvanizza. Se sei romanista non puoi esse’ nient’altro che romanista. E’ il tuo 4-3-3 dentro. E fuori. La tua posizione dentro e fuori dal campo. Davanti o dietro la panchina, dove si mise a Lecce quando capì che quello che si giocava non era pallone, ma calcio di Calciopoli. Se sei romanista lo sei sempre e comunque, non proprio contro chiunque ma sicuramente contro quello che è Palazzo, establishment, convenzioni, potere, pazienze diplomatiche, burocrazie colpevoli, leggine fatte ad hoc e a cazzo, furbizie fatte passare per esperienza o per costume. Così fan tutti ma non così fa Zeman. «Come faccio a essere felice nella vita?». Chiese una volta da ragazzino Vincenzo Cerami - uno de più grandi zemaniani viventi - a Pasolini che insegnava nella sua scuola di Ciampino. «Basta che non fai quello che fanno tutti», rispose Pasolini che zemaniano lo sarebbe sicuramente diventato. Zeman ha fatto quello che non ha mai fatto nessuno: denunciato il sistema da dentro. La rivoluzione.
E quando l’ha fatto stava alla Roma, era della Roma, aveva la maglia della Roma. Questo è quello che lo eterna romanista. Ciò che lo riporta a casa. Poi sono passati quattordici anni. E sono tanti, anche se adesso si può avere l’animo leggero e vederli come attimi. C’è un non so che di mastodontico, di geologico in questo ritorno senza ritorno che si somma a un altro, quello di Baldini pure lui esiliato da Roma e dall’Italia, dai poteri forti per lo stesso motivo. Come se la storia si fosse data appuntamento contro ogni senso, contro ogni storia, per raccontarne una mai vista, come un risarcimento, una giustizia più grande della legge. Il miracolo è che in tutto questo tempo Zeman non ha vinto scudetti, trofei, oscar televisivi eppure continua a rappresentare la cattiva coscienza dei mafiosi e la speranza di chi ama il pallone, o forse semplicemente di chi ama. E’ l’unico modo per far vincere la rivoluzione
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