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«La vita non è solo un pallone da rincorrere»

(Il Romanista – C.Prandelli) – Quando giocavo in serie C ero senza contratto. Non pensavo ai soldi. Mia mamma mi diceva: «Prima prendi il diploma e poi fai quello che vuoi».

Redazione

(Il Romanista - C.Prandelli) -Quando giocavo in serie C ero senza contratto. Non pensavo ai soldi. Mia mamma mi diceva: «Prima prendi il diploma e poi fai quello che vuoi».

E io ho seguito il suo consiglio. Perché era giusto così. La vita non è solo un pallone da rincorrere.(...) Ormai in Italia la struttura della scuola calcio è consolidata. Ci lavorano persone competenti, che hanno avuto un passato da giocatore o da dirigente sportivo. Sono i nuovi settori giovanili. Capita che i dirigenti di un club reclutino i ragazzi nelle scuole calcio, è difficile che vadano a vederli giocare nei campetti, come accadde per me. Certamente le scuole calcio danno ai ragazzi una disciplina e un ordine, e sono responsabili in prima persona del loro percorso calcistico. Però il rischio grande è che si imbrigli la fantasia. Passare qualche ora a rincorrere il pallone o a fare gli esercizi non basta. Ci vuole altro. Ci vuole di più. La fantasia, appunto. Io sono un grande fan della fantasia. Quando vedo dei ragazzi che giocano a calcio in tre metri per tre oppure dietro una chiesa mi fermo a guardarli. Per me quello è il calcio. Quella è la scuola calcio. Se fin da bambini abituiamo i ragazzi a usare scarpe perfette, pallone perfetto, il terreno di gioco perfetto, quel ragazzo non tirerà mai fuori la fantasia.

Passione e fantasia. Fantasia e passione. (...) Nella vita non c’è niente di facile. Mai. A nessuna età. Nemmeno se riesci a diventare un grande campione. C’è sempre un momento in cui devi fare i conti con te stesso e con quello che sei. Poi c’è lo stupore, la capacità di sorprendersi, di fermarsi a guardare e sentire il cuore che batte. Lo stupore è entusiasmo ed è il migliore antidoto contro la noia, che invece è subdola e alla fine spezza la passione. Chi fa sport non deve conoscere la noia, a qualsiasi livello pratichi. Che sia adulto o bambino. La noia porta brutti pensieri, stanca, è un tarlo invisibile.

Fa bruciare le tappe, fa correre inutilmente veloci. Io, per fortuna, continuo ancora a sorprendermi. Oggi mi rendo conto che lo stupore è stata la mia forza, altrimenti non avrei mai voluto i cambiamenti, e non avrei mai accettato le belle sfide che la vita ti mette davanti. Giuliano, il ragazzo che ci allenava a Orzinuovi quando giocavamo nella squadretta del paese, ci raccomandava sempre di presentarci in campo puntuali e con le maglie pulite. È stato allora che ho iniziato a capire cos’è il rispetto. Per il tuo allenatore, per gli orari, per il gruppo. Portavo sempre gli indumenti puliti e le scarpe lucide. Non scambiatelo per undettaglio, è fondamentale. È la vita. Nella mia adolescenza c’è sempre stata un’interazione continua tra i valori che mi trasmetteva la mia famiglia e i valori che imparavo giocando nella mia squadretta di paese. Stessi princìpi, stessi modelli. Io ci mettevo la passione. Ogni sera mi lucidavo le scarpe e poi le portavo con me nel letto. Dormivo con le mie scarpe da calcio. A volte la notte mi svegliavo e le indossavo, poi mi riaddormentavo. Non sono mai arrivato in ritardo a un allenamento ma non ero il solo, lo facevano tutti. Nessuno di noi ha mai contestato le scelte di Giuliano, e lui era bravo a farci sentire ognuno parte del gruppo.

È stato il primo a insegnarmi il concetto del turn over. Tutti i giocatori dovevano fare dei sacrifici perché era giusto così. E quei concetti come impegno, sacrificio, rispetto, che a un ragazzino di quattordici anni possono sembrare strani, nascevano spontanei dentro di noi. Lo stesso vale nei confronti degli avversari, anche loro meritano il massimo rispetto. Naturalmente tutti vogliono vincere, magari durante la partita nascono forti contrasti con gli avversari perché non ci stai a perdere, però quando l’arbitro fischia la fine dovrebbe esserci un abbraccio. Purtroppo nel calcio di oggi questo non succede. Ecco perché dobbiamo fare in modo che torni a essere passione e divertimento, come ai tempi dell’oratorio. Genitori, allenatori, dirigenti sportivi, occorre lavorare tutti insieme per liberare questo sport nobile e antico dalle tensioni, dalle forzature, dalle aspettative. Lasciamo che finalmente emergano l’aspetto culturale del calcio e la sua straordinaria capacità di favorire l’aggregazione sociale. Servirà a tutti, ai ragazzi, agli addetti ai lavori, ai genitori. E ai tifosi, che finalmente guarderanno questa pratica sportiva da un’altra prospettiva. E servirà ai calciatori, che impareranno a rapportarsi con la vita fuori dal campo. Troppo spesso, infatti, i calciatori si dimenticano della loro responsabilità nei confronti della gente. Come avviene per tutti i personaggi pubblici, vengono imitati. È giusto che escano la sera, ma non lo è altrettanto che facciano mattina nei locali o che vadano a ballare in discoteca dopo una partita finita male, quando a mente calda dovrebbero meditare sulle cause che hanno portato alla sconfitta. Forse, invece di parlare soltanto di «rispetto», si dovrebbe parlare di «cultura del rispetto». Il rispetto verso gli altri. Vale nel calcio come nella vita.

Parlando con un giocatore, posso cambiare idea. Anche durante la partita. Lui arriva e dice: «Guarda, mister, che le cose stanno andando in questo modo, cosa facciamo adesso? Propongo di...». Allora rifletto. Il fascino del calcio è anche questo coinvolgimento. Rimane che le sconfitte bruciano. E quando si va ad analizzarle, non si è mai sereni. È comprensibile. A nessuno piace sbagliare. Soprattutto è difficile ammettere i propri errori davanti agli altri. Per questo spetta all’allenatore adoperarsi perché la squadra viva un clima sereno, alleggerendo ogni tensione. Durante l’analisi di una partita al video, non ho mai alzato la voce con i miei calciatori, neppure in situazioni paradossali. Ho sempre cercato di capire perché avevamo sbagliato, è quello il vero obiettivo. Per una sconfitta, non ci sono colpevoli. Piuttosto, ci sono gli errori. Da identificare e risolvere. E poi bisogna guardare avanti. Il calcio è bello anche perché offre sempre una possibilità di riscatto.Giocare contro un allenatore è impossibile. E poi non avrebbe senso. Non ho esperienze in proposito. Non ho mai saputo di una squadra che decide a tavolino di perdere per cacciare l’allenatore. Senza contare che un presidente non esonera mai un tecnico alla prima sconfitta. Piuttosto, può capitare che un giocatore, sia pur inconsciamente, a seguito di un rapporto poco felice con il suo allenatore, non segua i suggerimenti e non si impegni abbastanza.

Magari una parola di troppo o un commento pesante davanti alla squadra lo hanno offeso, scatenando involontariamente la sua reazione. Io non credo alla provocazione razionale. In ogni caso, quando un tecnico si accorge delle corde tese fra lui e uno dei suoi deve intervenire immediatamente, mostrando di avere polso. Altrimenti ne va del controllo futuro sulla squadra. La gestione del rapporto con i giocatori è molto importante. Bisogna essere aperti, favorire il confronto, e al tempo stesso mostrare la decisione del capo. E ribadire la propria autorevolezza. Non dovrà mai accadere che la squadra si senta sola, senza una guida certa e sicura. Un allenatore non è mai solo. A sostenerlo intervengono i leader, i giocatori che reagiscono con forza davanti a un compagno che sbaglia. Che intuiscono la situazione e la risolvono senza l’allenatore. Fondamentali per l’equilibrio del gruppo. Se un giocatore viene ripreso da un suo compagno, il rimprovero ha un peso diverso rispetto al richiamo del tecnico. Vale doppio. Perché entrambi vivono lo spogliatoio, che ha regole proprie. Tra i giocatori c’è una complicità speciale. Anche bella. (...)