(Il Romanista - G.Sansonna) “Se devo fare una follia, prendo Zeman”. Lo aveva annunciato ai quattro venti, Massimo Moratti. Accarezzando per un istante l’idea di affidare al boemo ancora esiliato un’Inter orfana di Mourinho. Finì col preferirgli Benitez, in grande spolvero in quel maggio 2010. E Zeman si ritrovò ad accettare con entusiasmo un oltraggioso ingaggio in Lega Pro, con l’amato Foggia, pur di uscire dal suo lungo confino. Eppure sono tante le pazzie della gestione morattiana, a cominciare dalla cessione di Roberto Carlos per fare largo a Pistone.
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Il 4-3-3 e il tresette di Zeman
(Il Romanista – G.Sansonna) “Se devo fare una follia, prendo Zeman”. Lo aveva annunciato ai quattro venti, Massimo Moratti.
Passando per la trasformazione dei gioielli di casa Seedorf e Pirlo nel puntello delle glorie milaniste. Per culminare con il piazzamento a uomo di Tavaroli su Bobo Vieri, costato di recente un milione di euro. L’ingaggio di Zeman, invece, gli era sembrato un azzardo troppo grande, un gesto bello quanto delirante.
Un risarcimento morale al nemico acerrimo della Juventus. Da ventilare, senza dargli un seguito. Perché sognare è bene, ma ci vuole pragmatismo. Domenica sera, alla fine del primo tempo, Moratti ha spalancato in tribuna quel suo sorriso un po’ grottesco, da vecchio clown. Esaltato dal fortunoso colpo di biliardo di Tonino Cassano, guizzo estemporaneo di un talento bestemmiato. Che per quarantacinque minuti era sembrato zampettare in infradito, sul prato di San Siro. Come in beach soccer amatoriale, sul lido barese “Pane e pomodoro”. In perenne affanno, reclamando ossessivo attenzioni arbitrali e sbagliando appoggi semplici.
Poi, nel recupero del primo tempo, quello sprazzo di classe che liquida Castan e usa Burdisso come sponda, per beffare Stekelenburg. “Il nuovo Recoba” avrà gongolato far sé e sé Massimo, senza riflettere fino in fondo sulla propria terribile intuizione. Il giorno prima la pedina di scambio Pazzini spappolava il Bologna, con una tripletta e con meno pancetta dell’acquisto interista. Il pareggio galvanizzava moderatamente i nerazzurri. All’inizio del secondo tempo i ragazzi di Stramaccioni sembravano ricordarsi che San Siro è lo stadio dell’Inter.
Fino al coup de theatre del Capitano, estratto dal cilindro con tempismo da mattatore. Una rasoiata verticale, zemaniana. Che lacera il Meazza e i cuori nerazzurri. Lingua di fuori, fronte che si corruga, coma fa sempre quando scolpisce un capolavoro, Totti mette Osvaldo al cospetto di Castellazzi. L’argentino lascia di sale il portiere di Gorgonzola, con un cucchiaino. Il sorriso morattiano si spegne definitivamente. Gli occhiali, pietosi, gli si annebbiano. La Roma prende quota. “Zeman è cambiato, non è più intransigente” chiosano gli intenditori del senno di poi. Eppure zemaniana è la libertà di Totti di rendere imprevedibile il proprio talento, illuminando il collettivo. Boema è la birra che si ritrova in corpo, assorbita in ritiro, tra ripetute, gradoni e litri d’acqua in collo.
Quattro chili in meno, dice la bilancia, per una ritrovata leggerezza fisica e mentale. Corroborata da una fiducia nel condottiero in panchina che contagia anche le giovani leve. Zemaniano è anche il repentino recupero tattico e psicologico di Marquinho: spaesato all’Olimpico, letale a San Siro. Totti , invece, non deve imparare più nulla. Sa “spostare gli avversari”, altro refrain boemo, con i suoi movimenti tattici imprevedibili e studiati. Ha premiato con i suoi piedi fatati gli inserimenti dei rapidissimi Florenzi e Osvaldo. Lo hanno abbracciato pazzi di gioia, dopo i gol. “Per fare il mio gioco bisogna essere amici” ha sempre detto Zeman, che vorrebbe i suoi ragazzi meno dediti ai social network e più amanti del gioco delle carte, che cementa le sintonie. In questi giorni Maurizio Miranda, storico pupillo zemaniano, ha rivelato un episodio significativo. Ha incontrato Zeman da ragazzino, nel settore giovanile del Palermo, come Modica e Cangelosi.
Lo ha seguito nel Licata e poi a Foggia. Proprio nel capoluogo dauno, una sera, in barba agli orari boemi, Miranda, Signori, Barone e Rambaudi si attardavano in un tressette accanito. Zeman fece un’improvvisa irruzione. Squadrò i presenti, rinunciò alla scenata e si aggregò al tavolo. Tirarono nottata, tra risate e lazzi.
Il mattino dopo si ritrovarono tutti multati. Ma la sorpresa maggiore per i calciatori fu scoprire che anche Zeman si era autotassato, per una cifra doppia rispetto ai suoi ragazzi. Il boemo di sempre: amore ferreo per le regole, impastato di ironia surreale. Il contrario del moralismo uggioso, attribuitogli dai detrattori. Onore a Zeman icona del calcio pulito è lo striscione nerazzurro con cui lo accoglie San Siro.
Il segno di una riconoscenza trasversale, frutto di un eterno rispetto per il pubblico. Che paga un biglietto e viene a vedere uno spettacolo di un’ora trenta, la durata media di un film. Se vai al cinema e a trenta minuti dalla fine si brucia la pellicola, vuoi essere risarcito. La melina e il gioco occluso sono come celluloide bruciata, per il boemo. Con il suo calcio devi tenere incollati gli occhi al prato fino ai titoli di coda, fino al novantesimo inoltrato. “Non dobbiamo sognare noi, ma lavorare per far sognare gli altri” è stato il suo il sussurro semplice e definitivo, lasciando il Meazza espugnato. Rende l’idea della grande fatica che precede gli spettacoli più belli. Giorni di lavoro e di amore per un attimo di estasi, da regalare alla folla
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