rassegna stampa roma

Fuffo, il derby, la Roma e gli altri

(Il Romanista – M.Izzi) – 1 novembre 1933 Roma – Lazio: «Si era al 44’. Fulvio e Tomasi avanzarono palleggiando, il terzino Bertagni respingeva corto, Fulvio scaraventava a rete. Sclavi restò a terra, accosciato. (Vittorio...

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(Il Romanista - M.Izzi) - 1 novembre 1933 Roma – Lazio: «Si era al 44’. Fulvio e Tomasi avanzarono palleggiando, il terzino Bertagni respingeva corto, Fulvio scaraventava a rete. Sclavi restò a terra, accosciato. (Vittorio Finizio, Fulvio nostro, EFC, 1989, p. 46).

Non c’era modo migliore di celebrare l’avvicinarsi del derby che prendere parte alla bellissima serata di presentazione del libro: “Fulvio Bernardini. Il dottore del calcio italiano” (Kollesis Editrice, Marco Impiglia, 35 euro – da comprare ad ogni costo!). Grandissimi ospiti, a partire da Giancarlo De Sisti, Alberto Ginulfi, Italo Cucci, Mario Pennacchia, Fulvio Stinchelli e tanti altri, ma la presenza più carismatica rimane quella di Mariolina Bernardini, che con il suo tocco leggero, elegante e incisivo è riuscita pienamente nell’intento di far avvertire presente e pulsante lo spirito del grande “Fuffo”.

Ma andiamo con ordine. Quali sono stati gli aneddoti più gustosi della serata del 5 febbraio? Ci sono sicuramente stati diversi flash irresistibili a testimoniare l’ironia profondamente romana del grande Bernardini. Ecco dunque Italo Cucci ricordare: «Passare del tempo in compagnia di Bernardini era veramente una cosa bellissima. Dal punto di vista giornalistico, mentre lo si intervistava, di fatto, “dettava” il pezzo e lo faceva con un’attenzione per i termini, per le singole parole, veramente eccezionale. Era affascinante, poi, perché su qualunque argomento poteva regalare un retroscena sconosciuto. Una volta, in una conversazione, il discorso finì su un tale che si era dimostrato a mio avviso un “Qualunquista”. Lui chiosò: “Mo te spiego er qualunquismo”. Al che io, fresco di studi, iniziai a far notare che qualcosa l’avevo letta anche io, ma lui, che era genero di Guglielmo Giannini, il fondatore del movimento qualunquista osservò pacifico: “Ma io lo so diretto”. Comunque – conclude Cucci – era così affascinante godere della sua presenza che un bel giorno gli dissi: “Fulvio, quando sono con te mi sembra di essere con mio padre”. Mi guardò e aggiunse senz’altro: “No co’ tu nonno?”. E la cosa finì lì».

È toccato poi a Fulvio Stinchelli ricordare come a Bernardini è legata tutta la sua esistenza: «Quando nacqui mio padre andò a registrarmi all’anagrafe. Mentre era in cammino venne avvicinato da una Lancia. A bordo c’erano Attilio Ferraris e Fulvio Bernardini. Attilio accostò, lo salutò e gli chiese: “Ndo vai?” – “A denuncià all’anagrafe mio figlio”. “Monta che t’accompagnamo”. Fu così che venni battezzato con il nome Fulvio, in onore del capitano della Roma e fu così che nel mio certificato di nascita alla voce “testimoni”, figurano i nomi di Bernardini e Ferraris IV». Questi, dunque, alcuni dei luminosi bengala sulla memoria accesi sul mito Bernardini. Tra gli interventi più partecipi e commossi, c’è stato quello di Mario Pennacchia, in più di un passaggio del suo discorso si è commosso al punto tale di doversi arrestare per domare l’emozione del rievocare quello che per lui è stato un maestro e un amico carissimo. La profonda ammirazione per ogni singola parola pronunciata da Pennacchia mi ha lasciato divergente in un solo passaggio. In sintesi Pennacchia ha sostenuto che Bernardini essendo un simbolo universale del calcio, travalica le bandiere e le fazioni.

Ebbene, è sacrosanto che il “dottore” sia un totem da onorare per chiunque si riconosca nella passione calcistica. La sua filosofia di vita, le sue qualità morali e intellettuali, prima ancora che quelle tecniche, ne fanno un punto di riferimento per valori che trascendono effettivamente gli interessi di bandiera. A questo discorso va però fatta un’integrazione essenziale. Fulvio Bernardini rimane il simbolo e la bandiera di un’unica squadra e di un’unica società e quella è sempre stata e sempre sarà l’Associazione Sportiva Roma. La Lazio, in tutto questo, non può che essere una nota a margine, per intenderci quello che può rappresentare la Lodigiani per Francesco Totti. Fulvio lo ha detto, lo ha scritto, ma soprattutto lo ha testimoniato in un’intera esistenza. Nello splendido libro appena dato alle stampe viene ad esempio rievocato il primo derby della storia. Fuffo non lo giocò perché alle prese con un dolorosissimo problema. Quando la stracittadina venne disputata (8 dicembre 1929), il gran Fulvio era infatti in una clinica di Via Gaeta con la mascella fratturata nel corso di Alessandria – Roma. Per il dolore il nostro non dormì per due giorni, poi però, i suoi compagni arrivarono a comunicargli la notizia della vittoria nel derby con un gol di Sciabbolone Volk, e il capitano vinta la tensione si abbandonò nelle braccia di Morfeo per 24 ore filate.

Una volta rievocando l’inizio della sua carriera disse: «Io sono nato calcisticamente da altre parti, però, qui (alla Roma nda), ho avuto la mia affermazione clamorosa». Per inciso si tratta di un’intervista che è nelle teche di Rai Trade, dunque nessuna interpretazione di qualche cronista disattento. La Lazio era per Fulvio “altre parti”, perché il luogo dell’anima, la casa del suo cuore era giallo-rossa, si chiama Roma. È senz’altro vero che Fulvio aveva conservato un sentimento di tenerezza per i suoi esordi calcistici, non è un caso che nel 1981, quando la Lazio era impegnata in una delle sue infinite risalite dalla serie B, abbia avuto modo di scrivere: «Faccio il tifo per la Lazio (nel campionato di serie B, nda) perché ho nostalgia dei derbies Lazio-Roma e Roma-Lazio, magari con lo scudetto sulle maglie giallorosse». Capito? Resta ancora un flash da ricordare. Siamo al 4 maggio 1930. Bernardini gioca il suo primo derby (finirà 3-1 perla Lupa) e sblocca il risultato irrompendo su un tocco di Volk con un tiro di potenza bruta. Fulvio quella sera andrà in giro per Roma lasciando all’occhiello della giacca il foglio da 1000 lire del premio partita: «Per me – ricorderà – era come un trofeo».