(Il Romanista - T.Cagnucci) «De Rossi ha in testa solo la Roma. E a meno che Prandelli non dica che non rientro nei suoi piani, spero di firmare il rinnovo del contratto il più presto possibile e per più anni possibili.
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De Rossi quel Volos nel blu
(Il Romanista – T.Cagnucci) «De Rossi ha in testa solo la Roma. E a meno che Prandelli non dica che non rientro nei suoi piani, spero di firmare il rinnovo del contratto il più presto possibile e per più anni possibili.
A me non serve lo stimolo di poter giocare nel Real o nel Manchester o chissà dove: per me non c’ è emozione più grande di giocare la Champions League all’Olimpico. Datemi la Roma». Ci sarà tempo, anche se a volte la vita non te lo dà. Per Daniele c’è quello di conoscere il suo nuovo allenatore. Ed è subito amore.
De Rossi di Prandelli un giorno dirà «moralmente è da dieci e lode», intanto lo conosce in Austria e segna anche un gol a Kapfenberg per lui, proprio nel posto del suo primo ritiro. È il 20 luglio e finisce 4-1 per i Glasgow Rangers. Due giorni dopo la Roma festeggia il compleanno e De Rossi il suo alla Roma (…) De Rossi se ne va dal ritiro, invece, per una delle cose più belle che possano capitare a uno sportivo, forse la più bella: i Giochi olimpici, e questi sono quelli di Atene. Anche in questo, De Rossi – il ragazzo dell’83 che però sembra cresciuto ai tempi di Orzowei, Sandokan e Furia – sa d’antico.
Ad Atene ci va il blocco che ha vinto l’Europeo in Germania. L’Italia giocherà in Tessaglia, sul mare, in un posto dal nome sfacciatamente poetico: Volos. Per Daniele è una profezia. Gioca la prima partita contro il Ghana e l’Italia è brava a recuperare due volte i gol di Appiah, 2-2, fa una rovesciata da trequarti area spostato a destra per crossare in mezzo. È una prova per Ferragosto: c’è Italia- Giappone, e contro la patria dei cartoni animati Daniele De Rossi fa un gol che al confronto Shingo Tamai dei Superboys sembra un capolavoro di Zavattini. Uno schiaffo metafisico col sinistro alla De Chirico. Minuti 2 e 29 secondi di partita, cross da sinistra e poi De Rossi vola. Sì. Vola. È il primo caso di calciatore andato sullo spazio partendo da un campo di calcio, ma al confronto dell’allunaggio del 21 luglio 1969 le immagini televisive lo possono testimoniare in differita, mentre il saltello in direttissima di Armstrong non è mai stato dimostrato fuori da uno studio tv.
Qui c’è qualcuno che ha esagerato, ed è Tito Stagno, non Carlo Zampa. Sicuramente quel giorno i signori della televisione hanno sbagliato: quel gol, quella cosa, quel balzo rene-stella, non è stato trasmesso. L’unico risarcimento è il solito che ti riserva il grande mondo antico di Daniele De Rossi: la radiolina, il sapore crocchiante del distante, con la raucedine di turno che ti permette di immaginare quasi quello che ti pare attraversando le gole dei sogni. Per un papà è anche di più: «Peccato non ci fosse la diretta televisiva. Stavo sentendo la radio quando mio figlio ha segnato. Mi sono commosso, emozionato. Ma come mi insegna il mio lavoro ho aspettato ad esultare: bisogna sempre aspettare la fine della partita».
Era già successa una cosa simile, in una partita di Coppa Italia Primavera a Terni, un gol in rovesciata, ma se forse si può in qualche maniera comprendere l’assenza del satellite contro la Ternana, è imperdonabile qui all’Olimpiade, e poi in un posto che si chiama Volos e sta sul mare. È come aver rinunciato a scritturare Frank Sinatra al Colosseo. C’è una bellissima foto di De Rossi con Bovo, l’alloro in testa e la medaglia al collo. Sembrano Dante e Ariosto tanto per rimanere in questa lunga notte prima degli esami («quella» nottata passerà solo quando si rigiocherà «quella» partita). D’altronde Volos è mare di storia, sorge vicino all’antica Iolkos da dove partirono gli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro: qui è arrivato il bronzo, che è meglio (e poi Giasone giocava in casa).
D’ altronde Volos è mare di artisti, lì sono nati Giorgio De Chirico e Vangelis Campione d’Europa Under 21, podio alle Olimpiadi in due mesi a 21 anni appena compiuti e dopo aver passato mesi a soffrire e a non giocare, ma il guerriero della luce a Milano aveva trovato il mare. Se l’Italia ha battuto l’Iraq, la Roma vince 5-3 sull’Iran nella presentazione della squadra all’Olimpico senza allenatore ma con De Rossi tornato per l’occasione: in panchina Gabriele Pin. Prandelli è già andato via, dalla Germania sta per arrivare Voeller, il tedesco che vola. De Rossi ha appena iniziato a farlo e mentre la Roma di Rudi gioca la sua partita al Flaminio contro la Lodigiani, Daniele De Rossi è a Palermo. Sul mare. Da lì se guardi in su si vede tutta l’Italia.
La notte del 4 settembre diventa sua: «È stata una serata speciale. Tutto è andato bene. Subito ho sentito che le cose sarebbero andate alla grande. Poi quello che ha detto Buffon è il massimo, ma così va a finire che divento rosso ». Buffon ha detto a De Rossi che è «impressionante, sembra un vecchio», perché, sì, quella notte, il 4 settembre, a casa di Luca (Toni) è stata speciale: De Rossi ha esordito con la Nazionale, ma questo è un dato di cronaca che dura due minuti e spiccioli perché quando scatta il terzo quella notte diventa anche quella del primo gol con l’Italia di Daniele. Nessuno che aveva segnato all’esordio in azzurro ci aveva messo così poco.
De Rossi è anche il più giovane romanista a segnare con la Nazionale. Mai nessun giocatore di calcio in Italia era riuscito a fare gol in così poco tempo con la Nazionale: è come se a un neonato spuntasse il primo dente al terzo giorno, o se dopo un mese si mettesse a camminare. Ma Daniele è in volo, il gol lo fa tuffandosi nel blu dipinto di blu del mare palermitano, del colore della Nazionale, dell’unica altra maglia da poter indossare. «Io ho realizzato il sogno di poter mettere le maglie delle uniche squadre per cui facevo il tifo da bambino: la Roma e l’Italia».
Il gol è stato un tuffo, un inserimento dentro al fiordo: «Mi sono buttato e poi sono stato fortunato perché la palla è andata proprio a finire nell’angolo». L’avversario era la Norvegia di Johh Carew, compagno alla Roma l’anno prima (e unico altro giocatore al mondo che ha fatto esultanze paragonabili per la bellezza a quelle di De Rossi e a una storia di Hemingway: il secchione e il bambino). Prima della partita ci aveva scherzato Daniele col suo ex compagno («il “maestro” l’ho ritrovato come l’avevo lasciato a Roma: pieno di donne intorno»).
L’avversario è la Norvegia per poter andare al Mondiale. Non è un’amichevole, non è una partita così quella in cui esordisce, anzi, segna, Daniele De Rossi, ma la prima gara di un girone di qualificazione per la più grande competizione internazionale che ci possa essere (dopo la Coppa delle Fiere del 1961). Non era una partita così, perché era la prima ufficiale di Marcello Lippi nuovo ct. Lui, uomo di mare, da Viareggio, dove una volta De Rossi segnò un gol al Palermo, s’era messo seduto per la prima volta sulla panchina azzurra in Islanda, su un’isola: panchina scivolosa, sconfitta che sembrava rovinosa. Ma l’uomo del mare per rimettere il suo mondo in sesto aveva deciso di chiamare Daniele De Rossi. È come se gli avesse affidato un pezzo di destino.
Tre minuti solo tre minuti ci ha messo Daniele a renderglielo, dopo che un minuto, solo un minuto, ci aveva messo la Norvegia per complicarlo: gol di John John Carew naturalmente. È tutta scolpita da un poeta melenso questa notte tanto è perfetta: il miracolo è che è vera. In questo momento non c’è giocatore in Italia, e nel mondo, più interessante di Daniele De Rossi. Daniele il giorno dopo fa un altro gol, quando tutti gli chiedono di tutto e anche – indirettamente – se se ne va da Roma, visto che il contratto alla fine non è ancora stato firmato. È coi piedi per terra che sa di poter continuare a volare: «Io non sono un uomo sul mercato. Se non avessi segnato non ci sarebbe stato tutto questo interesse attorno a me.
In questo sport ci vuole poco a fare splash. Mio padre cosa mi ha detto? Con papà non parliamo mai di quello che faccio in campo, sarebbe insopportabile che oltre ai vari allenatori anche lui si mettesse a darmi dei consigli. Magari parliamo delle giocate di qualche altro giocatore. Il contratto? Io voglio restare a vita». E non è così scontato, detto da un ventunenne campione d’Europa, medagliato olimpico che ha appena segnato alla sua prima gara con la Nazionale e che è così sveglio da intuire di poter avere il mondo calcistico ai suoi piedi.
Non è scontato perché a Roma, dopo Capello e Prandelli, l’arrivo di Rudi Voeller è un déjà-vu non riuscito, un ritorno sbagliato. Rudi è rimasto a quel calcio fatto anche di certi «comportamenti giusti» che in quella Roma non ci sono. Il tedesco che vola(va) resta un mese, quattro partite, ne perde due, quelle in cui non gioca Daniele. A Bologna la Roma viene sconfitta in nove contro undici 3-1. A fine gara Voeller si dimette. Dice di aver sbagliato ad accettare e d’averlo fatto per amore, solo per amore. Dice anche un’altra cosa: che a Bologna ha visto una partita vergognosa. Daniele De Rossi a Bologna in campo non c’era, il giorno dopo, come fosse quello che è già diventato, cioè una bandiera, parla alla sua maniera: «Il problema non era Voeller, ma lo spogliatoio. Il tedesco è l’unico senza colpe. Siamo tutti bravi a baciare la maglia e a rispondere presente quando ci viene chiesto di scendere in campo, però bisogna correre. Qualcuno lo fa, qualcun altro no, perché crede che basti solo la classe per fare bene». È il 3 ottobre 2004.
Il 4 settembre 2004 De Rossi ha segnato il suo primo gol con l’Italia, esattamente dieci anni prima, il 4 settembre 1994, Totti il suo primo gol con la Roma. Questa sera è pure una cifra tonda per il numero 10: 100. Multiplo. Equazione: non solo è un segnale, ma anche un segnale forte. Uno scossone. È pressoché ufficiale: a un quarto d’ora dalla fine di Roma-Inter sta per accadere qualcosa di grosso. Cosa mai ci regalerà la vita adesso? Spiovente. Si muove il medio oriente. La Grecia e l’Egitto, Dellas e Mido, due fra le civiltà più antiche della nostra civiltà, convergono verso Daniele, uno gli appoggia il pallone, l’altro glielo sfiora, come a dire che toccherà a lui prendere il testimone: dei faraoni, di Sofocle, dei papiri, delle polis… Daniele riceve col cuore. Roger, stop di petto, ricevuto. E lo dà alla curva. Cosa? Il pallone, il suo cuore, un altro mondo possibile. Un’emozione. Gol. Gooool. GooOoOoooooOOOOL. De Rossi diventa il mare. Sale, s’ingrossa, cresce, tracima, straripa, dilaga, inonda, fuoriesce.
Canta tutte le libertà stonate che sono le più belle, percorre ogni girotondo, urla e parte per la rivoluzione lasciando i bambini a casa per il bene del mondo; è la fanfara e la banda prima dell’ora di cena d’estate, la scuola chiusa per la finta bomba, i colori dell’edicola, il ritorno dalla prima vacanza da grande, l’ultimo autogrill prima di casa, Push dei Cure ballata di notte sui ghiacci, una scena notturna di Se mi lasci ti cancello, un valzer suonato dai Sex Pistols, Disorder dei Joy Divison… È quello che racconta la sua corsa verso i tifosi della Sud.
Quando è così il calcio è una bella cosa, è una bella cosa vedere un’emozione. De Rossi bacia la maglia della Roma con quella fretta, quella furia e quell’ansia che solitamente si hanno quando capitano potenziali disgrazie, tipo quando ti cade il ragazzino dal letto. L’intensità e i movimenti sono gli stessi, ma nella versione frenetica e scomposta di un inno alla gioia. Appena segna si porta la maglia alla bocca con la prima mano disponibile, la sinistra, dunque fa la stessa cosa con la destra, come a dire a se stesso: «devo averne più cura»; nel frattempo è già arrivato a Portonaccio quando con due gambe salta sopra al tabellone, e il volo lascia scoprire una cosa mai vista: una volta c’era Steve Ostin professione astronauta, l’uomo bionico, o le favole del Mago di Oz, i soldatini di piombo, l’uomo senza ombra, Elephant man… adesso c’è un ragazzo che ha cucito alla pelle una maglia rossa, se prova a togliersela perde forza. Vita. Non può farlo. Uno così non è operabile sul mercato.
Quella notte fa vedere al mondo che l’attaccamento non è solo un modo di dire, ma un fenomeno fisico, l’appartenenza un dna non trapiantabile. Poi, quando è più vicino al popolo, si riprende quel che resta della maglia strappata, sdrucita, scucita e la tira una, due, tre volte più su, tra un bacio e il cielo. È in quel momento che una maglia torna a essere una maglia. Il calcio pallone. Che i tifosi ritrovano la loro ragione. Gli anni persi con il progresso vengono recuperati in questo salutare, innocuo, spettacolare, umanissimo e felice eccesso.
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