(il Romanista - T.Cagnucci) Quando stava all’Ostia Mare giocava col 9. Nessuna prova. Era per forza e per amore: da ragazzino ti piace fare gol . E’ la tua speranza più grande e sacrosanta.
rassegna stampa roma
Daniele, il guerriero universale
(il Romanista – T.Cagnucci) Quando stava all’Ostia Mare giocava col 9. Nessuna prova. Era per forza e per amore: da ragazzino ti piace fare gol . E’ la tua speranza più grande e sacrosanta.
Ti piace sempre fare gol quando giochi a pallone, pure se fai il portiere. Ecco per parlare “tatticamente” di Daniele De Rossi i riferimenti a Higuita, Butt, o agli episodi nostrani alla Rampulla e alla Taibi, i portieri goleador cioè, sono buoni riferimenti: De Rossi può giocare dovunque, in qualsiasi ruolo, con qualsiasi tempo, con qualsiasi allenatore, basta che la maglia sia sempre quella. No, non quella dell’Ostia Mare, che era proprio quella di sotto casa (e a casa si metteva la 5 Barilla di Falcao) ma quella che c’ha cucita addosso (glielo hanno pure scritto fuori Piazzale Dino Viola, basta chiamarla Trigoria). All’Ostia Mare giocava attaccante e tra un po’, a mezzogiorno e mezza giocherà da difensore centrale. Da qui a lì, dalla linea di difesa al puntino biondo d’attacco, da Ostia al Novara ci passa tutta la carriera e – perché no? - la vita di Daniele De Rossi.
Perché De Rossi Daniele non faceva l’attaccante solo in riva al mare, ma anche nella Roma. Nei giovanissimi, negli allievi, fino praticamente agli allievi regionali, quando si ritrovò pure a fare il guardalinee visto che era tutto franne che un titolare, mentre la domenica faceva il raccattapalle sotto la Sud (pure quelli so ruoli, ’azzo). Negli Allievi Sperimentali lo allenava l’attaccante Guido Ugolotti: «All’epoca era un giocatore diverso, faceva il trequartista... fisicamente era piccolo e gracile, non riusciva a trovare continuità», una volta disse (...).
E invece De Rossi è sempre stato un animo punk e quindi ha sempre saputo che il futuro non è scritto. Anche perché una volta ha incontrato un signore allenatore e un Signore (la parte della vita, non solo della carriera) chiamato Mauro Bencivenga che gli ha parlato dei valori della classe operaia, che lo faceva allenare sui prati dell’Eur (e il pallone lo dovevi andare a riprendere se finiva per strada o sull’albero), che gli faceva fare la colletta, anche mille lire, ogni settimana (i soldi li teneva il capitano) per l’Unicef e che gli diceva «di andare a lavorare, di fregarsene dei soldi, delle belle macchine, di queste stronzate».
Anche così Daniele De Rossi è diventato calciatore: «Non era né carne, né pesce era abbastanza tecnico per cui giocava davanti; l’ho provato mezzala, esterno, trequartista, ma c’erano giocatori più forti di lui, finché un giorno l’ho sistemato lì». Perché mancava Tinazzi, che giocava davanti alla difesa: da quel momento De Rossi s’è messo lì. Oggi farà un altro passo indietro, cioè un altro avanti nella carriera, così come già gli è successo contro la Juventus a dicembre. Con Capello e Spalletti ha giocato sempre in mezzo anche se a turno, e per necessità (non per forza ma sempre per amore) un po’ più avanti e un po’ più indietro.
Con Prandelli alla Roma avrebbe potuto cambiare ancora ruolo (con Prandelli giocò solo una partita segnando in amichevole ai Glasgow Rangers che proprio oggi sono falliti), con Luis Enrique ha trovato il paradiso tattico, forse perché fa veramente un po’ di più Falcao (ah quella maglia da ragazzino) e forse perché davanti o dietro o di lato (col Cagliari ha finito ala) gli permette di fare quello che ha sempre preferito fare: tutto per la Roma
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