(Il Romanista - M.Macedonio) «Trent’anni da quell’11 luglio? Vuol dire che stiamo invecchiando».
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Conti: «Trent’anni fa il mio Mondiale»
(Il Romanista – M.Macedonio) «Trent’anni da quell’11 luglio? Vuol dire che stiamo invecchiando».
Non rinuncia alla battuta e a un po’ di autoironia, Bruno Conti, nel ricordare in esclusiva a Il Romanista quella notte del 1982, quando con la Nazionale si laureò campione del Mondo. «E’ però vero che, se allora si fu travolti dall’emozione, a distanza di trent’anni è possibile mettere a fuoco ancora di più quello che vivemmo noi tutti grazie a quel gruppo, unito come pochi. Il primo ricordo che ho è quello del Presidente Sandro Pertini. Perché la sua presenza al Santiago Bernabeu, quella sera della finale contro la Germania, ci dette (...) una spinta in più. Eravamo infatti tutti convinti che avremmo trionfato in quel Mondiale, soprattutto dopo le vittorie contro Argentina e Brasile, ma la carica che seppe darci anche lui, che sapevamo avere dietro di sé una nazione intera, dei cui desideri si faceva in qualche modo interprete, aumentò la nostra determinazione in campo. Ricordo il viaggio di ritorno con lui sull’aereo presidenziale, e poi la cerimonia in Campidoglio, e i festeggiamenti che non finivano mai…».
Un Mondiale che, come accaduto altre volte, aveva visto la nazionale italiana iniziare in maniera poco brillante. «E’ vero. Il girone di qualificazione contro Camerun, Perù e Polonia lo superammo con tre pareggi, senza infamia e senza lode. Ma poi, le due partite contro le due sudamericane, che schieravano i campioni che sappiamo, da Maradona a Passarella, Ardiles e Kempes, l’una; e da Falcao a Zico, Cerezo, Socrates e Junior l’altra, ci dettero la convinzione di poter arrivare fino in fondo, anche contro una Germania che aveva a sua volta nomi del calibro di Rummenigge, Stielike, Breitner, Hansi Muller e Littbarsky, tanto per citarne solo alcuni. Alla faccia di chi ci definiva una Nazionale “catenacciara” ma che fu invece capace di rifilare tre gol a tedeschi e brasiliani dopo averne segnati due anche agli argentini, e ai polacchi in semifinale. Un gruppo, il nostro, che deve la sua compattezza a Enzo Bearzot, che seppe motivarci come pochi, dal blocco Juve, con Zoff, Gentile, Cabrini, Tardelli, Paolo Rossi, agli altri che erano stati inseriti per completarlo, come me, Antognoni, Bergomi, Oriali, Altobelli, Graziani… Un grande maestro, Bearzot, ma anche persona dotata di una straordinaria umanità. Ricordo che, appena arrivati, ero stato assegnato in stanza con Giovanni Galli. Che però andava a dormire alle 10 di sera, mentre io non riuscivo proprio a prendere sonno. Dopo una notte in cui presi una botta allo stinco contro il comodino, ottenni da Bearzot - che aveva capito la situazione - di dormire in stanza da solo. Dove potevo fumarmi la mia sigarettina e, insieme a Tardelli, andare in giro per le stanze a rompere le scatole a tutti gli altri. Fu per questo motivo che Bearzot ci chiamò i “coyotes” della compagnia. Quanto agli altri, mi viene in mente il soprannome che affibbiammo, bonariamente s’intende, a Paolo Rossi. Lo chiamavamo il “caccola”, perché un paio di volte l’avevamo pizzicato mentre si stuzzicava il naso e poi appiccicava il risultato dell’operazione sotto il sedile della macchina di qualcuno di noi. La dimostrazione, anche questa del prendersi gioco l’uno dell’altro, di quanto fossimo uniti…».
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