"Tifo per la Juventus da sempre, andavo a letto con la maglia bianconera". Zdenek Zeman si rivela e lascia tutti senza parole. In un'intervista al Corriere della Sera, il boemo racconta un retroscena inaspettato.
Il Corriere della Sera
Zeman: “Tifo Juve da sempre, andavo a letto con la maglia bianconera”
Lei è nato a Praga nel 1947, due anni dopo l’arrivo dell’Armata Rossa. Come ricorda la Cecoslovacchia comunista? "Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva".
Roma è la sua città d’adozione. "Vivo qui da 25 anni, ho allenato entrambe le squadre, e sia i laziali sia i romanisti mi vogliono ancora bene".
Come trova la capitale? "È una splendida città antica, e una metropoli moderna piena di problemi che nessuno affronta".
Lei per quale squadra tifa? "Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera".
Zeman juventino? Ma se avete avuto polemiche durissime. "Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima".
Nella capitale lei arrivò nel 1994, ad allenare la Lazio. "Firmai nella sede della Banca di Roma, e trovai la cosa molto strana. C’era pure Geronzi, il banchiere, e mi chiese quale allenatore avrebbe dovuto prendere la Roma. Lui pensava a Trapattoni".
Ma nel 1997 ad allenare la Roma andò lei. "La Lazio mi aveva esonerato. Suona il telefono: “Sono il presidente Sensi”. Buttai giù: “E io sono Napoleone”. Era Sensi per davvero".
Lei denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo. "Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza".
A cosa si riferisce? "Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio".
Come andò con la Roma? "Il campionato 1998-1999 fu un calvario di torti arbitrali, che costarono alla mia Roma almeno 21 punti. A Udine ci inventarono un rigore contro. Avevamo un attaccante, Fabio Junior, immeritatamente detto l’Uragano blu, che non segnava mai; quando finalmente fece un gol, glielo annullarono, non si è mai capito perché. Episodi assurdi. I calciatori videro che i loro sforzi erano inutili, e qualcuno mollò. La quartultima giornata perdemmo 4 a 5 con l’Inter all’Olimpico. Si disse che l’Inter avesse contattato tre dei miei in vista dell’anno successivo. Ebbi l’impressione che alcuni fossero distratti, c’erano difensori che facevano i centravanti... Così con Sensi decidemmo di fare nuovi acquisti".
Invece Sensi la mandò via. "Il sistema lo convinse che con me in panchina non avrebbe mai vinto nulla".
Arrivò Capello, e nel 2001 vinse lo scudetto. "Ma con spese folli, tipo i 70 miliardi per Batistuta trentunenne, che costarono a Sensi il tracollo finanziario. E Capello non partecipò alla festa al Circo Massimo, che io non mi sarei perso per niente al mondo. Invece mi ritrovai senza contratto; del resto avevo sempre voluto accordi annuali. Mi avevano cercato il Real Madrid, il Barcellona, l’Inter. E avevo detto no a tutti".
Il giocatore più forte che ha mai avuto? "Totti. Pareva avesse quattro occhi, due davanti e due dietro. Gli ho visto fare cose che sorprendevano tutti, anche me dalla panchina. Un’intelligenza calcistica prodigiosa. L’ho allenato due volte, quando aveva ventun anni e quando ne aveva trentasei, al mio ritorno alla Roma. Mi ha sempre seguito. E non abbiamo ma litigato".
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