Ogni volta che un genitore parla di un figlio o una figlia che non c è più, o che sta combattendo una battaglia che la scienza ritiene ormai persa, c'è dentro di lui una domanda dalla quale non si può scappare: faccio bene a rendere tutto questo pubblico e alimentare cosi anche i "social del dolore"? Vale per Julio Sergio e il suo Enzo, per Luis Enrique e la sua Xana. Come scrive Luca Valdiserri su 'Il Corriere della Sera' una risposta probabilmente non c'è. Tutte le disgrazie sono simili ma ogni modo di affrontarle è diverso. Non c'è un merito o un demerito. Non ci sono eroi o persone speciali. Non guarisce chi lotta e soccombe chi si arrende. Parlare del dolore più incomprensibile e contro natura e una scelta, non un attestato al superiorità. Può sensibilizzare su un problema - Julio Sergio lo ha fatto sull'oncologia pediatrica - e avere un valore anche sociale ma non restituisce mai neppure una briciola di quello che si è perduto. Al massimo trasforma per un attimo il vuoto che molto presto torna a bussare alla porta. È più utile a chi lo ascolta che a chi lo pronuncia. Se si hanno orecchie per sentire dentro un mondo, come quello dei social, pieno di rumore.
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CORRIERE DELLA SERA
Quel video sui social che sensibilizza ma lo strazio resta
Condividere il dolore non è eroismo, ma una scelta che può dare voce e senso a chi vive lo stesso silenzio
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