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Il destino e la vergogna

(di Paolo Marcacci) Chissà cosa c’è alla fine del tunnel, quando si esce dal campo; quando finisce il cono di luce che irradia le maglie sudate e gli inservienti che stanno ai lati, assieme ai fotografi che arrivano fin dove possono e a...

Redazione

(di Paolo Marcacci) Chissà cosa c'è alla fine del tunnel, quando si esce dal campo; quando finisce il cono di luce che irradia le maglie sudate e gli inservienti che stanno ai lati, assieme ai fotografi che arrivano fin dove possono e a qualche dirigente che ha qualcosa da urlare verso l'arbitro..

.Quand'è che si attutiscono le grida, gli ultimi cori della gente che sfolla, la musica di sottofondo sempre sparata a volume troppo alto dagli altoparlanti dello stadio...

Nessuno lo sa e anche per questo ogni congettura che facciamo per cercare di dare un senso a ciò che non riusciamo ad accettare fino in fondo, risulta goffa, già pensata certamente da qualcun altro, sconfina nella retorica e spesso rende più rabbioso il dolore di chi soffre verso chi si limita ad assistere e basta, magari anche sinceramente commuovendosi,  soprattutto in quest'epoca di condivisione forzata delle emozioni.

Piermario Morosini aveva continuato a condividere ciò che  realmente conta con le poche persone, sempre di meno, che erano rimaste attorno a lui tra quelli che realmente contano, quando la vita ti mette troppo presto di fronte all'obbligo di selezionare le coccole dalla sofferenza, chi ti ascolta da chi ti sente, gli individui dalla gente.Una vita, la sua, che aveva capito l'importanza della discrezione, del proteggere ciò che  va protetto, anche a fronte di un certo successo, dell'accensione dei riflettori, della salita sul carro di chi conta.

Con buone credenziali di riuscire a contare ancora di più, tra l'altro, visto che era un buon calciatore e un ottimo professionista, uno che ricavava la sua speranza più grande dall'impegno, dato che aveva capito quasi subito che del destino sarebbe stato meglio non fidarsi. Aveva avuto ragione.

Rispetto ad altre vicende luttuose e drammatiche come la sua, stavolta persino che non si ferma mai di fronte a niente, chi non coglie alcun frutto da una sensibilità che dovrebbe ancora essere naturale, è riuscito a trattenersi un attimo di più; se non altro perché è stato toccato dalla profonda ingiustizia che solo la sorte può farti piovere addosso, persino più di chi ti odia e di chi ti perseguita, anche se Morosini non era certo il tipo da far provare sentimenti del genere. Un attimo dopo, però, chi aveva cominciato a fare una decente figura si è subito ricordato di mettersi a litigare per questioni ridicole o quantomeno intempestive, a scegliere la foto più choccante per cogliere la morte, a fare il proprio lavoro, in un certo senso.

E'questa la formula più terribile: a fare il proprio lavoro, che è  peggio che dire che lo  spettacolo deve andare avanti, perché in quest'ultimo caso c'è almeno il sottinteso di stringere i denti davanti al dolore; nell'altro c'è invece l'obbligo persino di calpestarlo, se occorre.  Per "fortuna",  mai termine fu più improprio, nessuno dei suoi genitori ha dovuto sostenere la vista di certe prime pagine, con in primo piano dello sforzo estremo per aggrapparsi alla vita. Hanno fatto il proprio lavoro anche quei fotografi, in fondo, no?

Dicono che chi muore in maniera traumatica rimanga con la propria anima, per chi ci crede, a galleggiare sopra il luogo dove ha trovato la morte. In un certo senso per Morosini sarebbe il caso di preferire la pace del buio, allora: la sua dedizione e la capacità di reagire a ciò che  era sempre stato più grande di lui non meritavano certo di finire in uno stadio di Serie B, in mezzo ai fischi di chi capisce sempre troppo tardi e troppo tardi chiede scusa, tra impedimenti idioti e responsabilità che, vedrete, non si troveranno.

Era stato al Camp Nou, di recente: speriamo sia stato quello l'ultimo fotogramma che è riuscito a calpestare.