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Spalletti: “A Roma vincere è imperativo. Se non ci riesco vado via”

Il tecnico giallorosso si racconta in un'intervista all'Equipe: "Per allenare questo club è necessario avere carattere e un po’ di esperienza. Qui non c’è la possibilità di immaginare una crescita graduale, tutto è rapido, accelerato"

Redazione

"Vincere è imperativo a Roma". Luciano Spalletti nell'intervista rilasciata all'Equipe racconta il passato e il presente alla guida della squadra giallorossa. Poi uno sguardo al futuro e al contratto non ancora rinnovato: "Se non vincerò qualcosa significa che non avrò fatto meglio dei miei predecessori e quindi andrò a casa". Questa l'intervista integrale al quotidiano francese:

Luciano Spalletti, è passato poco più di un anno da quando ha deciso di intraprendere una seconda esperienza a Roma, sei anni e mezzo dopo la prima e dopo aver vissuto un periodo di successi in Russia. Cosa l’ha spinta, come si dice in francese, a gettarsi nuovamente nella bocca del lupo, in questo caso della lupa?

“Semplicemente l’affetto per questa città, per questo popolo romanista, per questo movimento presente ovunque. Ma soprattutto sono tornato per l’amore per questa che è la squadra del cuore dei miei figli”.

(Il tecnico pronuncia le ultime parole molto lentamente, mentre è impegnato a cercare qualcosa sul suo smartphone. Poi smette di parlare e ci mostra la foto di suo figlio che mostra con fierezza un enorme tatuaggio sul petto nudo con la scritta “Forza Roma!” Un figlio che studia negli USA ed è un grande fan di Francesco Totti)

Alla Roma, tra il 2005 e il 2009, lei ha vinto due Coppe Italia e una Supercoppa, collezionando tre secondi posti e giocando un gran bel calcio in Europa. Come giudica a distanza di anni quel periodo?

“Il mio giudizio non è cambiato. All’epoca abbiamo lavorato in maniera corretta, tentavamo tutti assieme di trarre il massimo da quel lavoro in competizioni di rilievo”.

Una Roma dallo stile inconfondibile e per la quale lei inventò un Totti falso nove…

 “Una scelta felice! Ma, vede, non siamo tanto noi allenatori ad inventare le cose. Sono i giocatori che ti orientano con i loro comportamenti e con le loro caratteristiche verso soluzioni che poi noi possiamo mettere in pratica. A volte funzionano a volte no. In quel caso funzionò piuttosto bene”.

Come è nato quello stile definito da molti osservatori “alla Spalletti”?

“L’idea generale si basava sulla ricerca di un tipo di gioco che oggi è molto più sviluppato e praticato, ma che allora non aveva ancora molti adepti. Mi riferisco allo stile del Guardiola del Barcellona che ha preso il nome di tiki-taka ma che poi, fondamentalmente, si basa sul possesso palla e sul controllo del gioco. E’ quello che noi ceravamo di fare, nel nostro piccolo. Grazie ai suoi movimenti, Totti era bravissimo ad accorciare la profondità della squadra, consentendoci di fare superiorità in mezzo al campo. Gli avversari per sopperire erano costretti ad aprirsi e noi potevamo andare in porta grazie ai nostri uomini bravi ad attaccare la profondità. Il pubblico e la critica allora apprezzavano il nostro modo di ripartire e spesso non notavano quanto fosse gradito ai calciatori quel modo di giocare che consentiva loro di avere spesso il controllo della palla”.

Cosa la portò a San Pietroburgo quattro mesi dopo aver lasciato la Roma?

“Era un’esperienza totalmente nuova per me che non avevo mai lavorato all’estero. Inoltre, i dirigenti russi quando mi hanno cercato hanno fatto di tutto per farmi sentire molto importante, al centro del loro progetto. In particolare Aleksej Miller (il numero 1 di Gazprom e dello Zenit), un dirigente che fa sempre le cose con molto entusiasmo e sentimento e che mi ha messo nelle condizioni migliori per poter lavorare. All’inizio abbiamo fatto due campionati bellissimi e li abbiamo vinti. La squadra giocava veloce e bene con uno stile molto simile a quello della mia Roma, segnava tanti gol.  Poi, col passare del tempo, ho dovuto mettere le mani su alcune situazioni complicate, gestire giocatori dal carattere forte ed esuberante. Senza contare che i calciatori russi cominciarono ad essere gelosi degli stipendi degli stranieri, più alti dei loro. Diciamo che la seconda parte della mia esperienza a San Pietroburgo è stata più problematica!”.

In ogni caso, in Russia come in Italia lei è stato alla guida di squadre spettacolari e vincenti. Ma se nel primo caso ha vinto due titoli nazionali, con la Roma lo scudetto le è sempre sfuggito. Come mai?

“All’inizio di questo decennio nella Premier League russa la concorrenza per la vittoria del titolo era meno forte. In serie A i candidati alla vittoria dello scudetto sono sempre più numerosi. Oltre tutto non dobbiamo dimenticare che ai tempi della mia prima esperienza a Roma avevamo a che fare con la più forte Inter degli ultimi decenni, anche se nella primavera del 2008 siamo stati davvero ad un passo dal vincere il titolo”.

Il contesto in cui si lavora può influire: Roma è considerata una piazza molto calda, molto particolare…

“In effetti lo è! Il fatto che Roma sia il centro della politica italiana influisce su tutto il resto. Qui va tutto ad una velocità superiore, tutto è amplificato, moltiplicato. Tutto questo influenza anche il modo di vivere il calcio nella città. Un luogo dove la partecipazione del pubblico, il coinvolgimento dei tifosi è assoluto. A Roma ognuno vuole avere l’ultima parola, trovare l’argomento che fa la differenza. Per gli sportivi è come se fosse derby tutto l’anno!”.

Un fenomeno accentuato dalla presenza imprescindibile delle radio che parlano di calcio 24 ore su 24.

“Le radio di per se non sono un problema. Anzi, contribuiscono ad aumentare l’interesse per il calcio, fanno partecipare la gente, offrono le chiavi dialettiche per farlo. Questa passione non impedisce di lavorare bene a Roma, le assicuro che i calciatori ci vengono volentieri. (Luciano Spalletti indica il cielo con una mano) Ha visto che bella giornata oggi, che sole? Come si fa a dire che non si lavora volentieri a Roma?”.

Magari pensando alla complessità dei rapporti con i media…

“Di me ciascuno può scrivere quello che gli pare, non è un problema. (Assume un atteggiamento ironico) Direi anche che è un piacere!”.

Un piacere, lei dice, ma il suo rapporto con i media sembra piuttosto dialettico…

“(Ridiventa serio) La prima volta che andai via da Roma praticamente fui costretto a farlo. Qualcuno cominciò a scrivere che Spalletti non aveva vinto nulla, un po’ di gente gli è andata dietro, sono stato messo nelle condizioni di andarmene. Solo che dopo di me certe situazioni sono successe anche ad altri e sono andati via allenatori che ora guidano squadre di primo piano. Questo significherà qualcosa. Sono tornato a Roma dopo quasi sette anni e ho ritrovato le stesse situazioni, gli stessi meccanismi. Allora dico: se si continua così, se si ripetono sempre questi comportamenti, in questa città continueremo a non realizzare mai niente. E’ per questo che sono tornato: per non lasciare la Roma in balia di certe persone che pensano di fare il bello e il cattivo tempo”.

In tutto questo che ruolo hanno i tifosi?

“I tifosi della Roma sono i supporter della squadra della capitale d’Italia. Sono caldi, passionali, sono consapevoli di cosa rappresenta la loro città e questo li spinge ad avere ambizioni elevate. A Roma non si gioca per partecipare, c’è la necessità di vincere”.

Ad ascoltare le sue parole, il quadro ambientale non sembra dei migliori…

“Le ripeto: a Roma le condizioni di lavoro sono eccellenti. Esistono solo delle situazioni e dei personaggi che agiscono da ostacolo.”.

Lei crede che allenare a Roma sia un’impresa alla portata di tutti gli allenatori?

“Sicuramente per allenare la Roma è necessario avere carattere e un po’ di esperienza. Detto questo, in giro ci sono diversi allenatori che potrebbero tranquillamente guidare una squadra come questa. Negli ultimi tempi in Italia sono emersi alcuni allenatori di grande qualità. Oggi il calcio italiano è nelle loro mani”.

Una sorta di “nouvelle vague”?

“Ce ne sono tanti. Potrei citare Vincenzo Montella (Milan), Marco Giampaolo (Sampdoria), lo stesso Stefano Pioli (Inter). Uno dei più bravi, sebbene sia emerso tardi, è Maurizio Sarri (Napoli). E’ vero che nel calcio spesso le partite le risolve il campione, ma quando questo non è sufficiente loro sono tutti tecnici capaci di leggere perfettamente sul piano tattico le partite e mettere in difficoltà anche avversari più forti di loro”.

E un tecnico straniero può imporsi in una città come Roma e, in particolare, alla Roma?

“Si indubbiamente. Ma qui ne abbiamo visti passare di ottimi e abbiamo visto che per loro è ancora più complicato, essendo sottoposti ad una pressione alla quale di solito non sono abituati”.

Rudi Garcia ha avuto un impatto immediato sulla Roma quando è arrivato…

 “Garcia aveva iniziato benissimo. La squadra aveva quell’entusiasmo che soltanto la vittoria delle partite può darti e poi giocava anche un bel calcio. Ma complessivamente direi che Rudi ha fatto bene anche sul piano dei risultati, i due secondi posti sono un bel traguardo”.

Quando lo ha sostituito, prendendo in mano la squadra ha modificato il suo giudizio sul lavoro di Garcia?

“A un certo punto Garcia ha avuto delle difficoltà ed è stato travolto dalle circostanze e da quei meccanismi che le descrivevo prima. Non ho modificato il mio giudizio su di lui alla fine della sua avventura. Appena sono arrivato ho trovato più o meno la situazione che mi aspettavo. Quando ho cominciato a lavorare a Trigoria ho voluto verificato subito una cosa: che i giocatori avessero la disponibilità a rispettare i ruoli. Così tutto è andato a posto, anche perché la Roma ha giocatori di grande qualità”.

Tornando alla Roma di quest’anno, lei ha dovuto fare a meno di Pjanic, passato alla Juventus. Un bell’handicap…

“Pjanic è stato una delle chiavi dell’ottima riuscita del girone di ritorno dello scorso campionato. A centrocampo avevo puntato tutto sull’asse De Rossi-Pjanic perché mi piaceva l’idea di avere in mezzo al campo un giocatore dai piedi buoni in grado di giocare la palla con qualità e velocità. In questo ruolo, a mio avviso, Pjanic è il più bravo in Italia”.

Lei ha ovviato alla partenza del bosniaco utilizzando Nainggolan come trequartista. Una soluzione che inizialmente ha lasciato perplessi molti.

“In effetti all’inizio nessuno vedeva bene Nainggolan davanti ai centrocampisti. Ora ogni critica è superata. Adesso provi lei a proporgli di giocare in un ruolo diverso, vedrà come la guarderà di traverso! Li si trova alla grande, è dinamico, contrasta e al tempo stesso può anche cercare con più insistenza il gol”.

Sul piano tattico, qual è la differenza tra la sua prima Roma e quella di oggi?

“La Roma attuale occupa il campo in maniera un po’ differente. E’ più allungata, meno avvolgente. Ma questo fatto è determinato anche dalle diverse caratteristiche individuali dei calciatori”.

Come allenatore, le è capitato di gestire l’ultima parte della carriera di un giocatore diventato ormai un mito: Francesco Totti. Nel recente passato c’è stata qualche polemica al riguardo, adesso le cose sembrano essersi sistemate. Come vive tutto questo?

“Avere ancora a disposizione Totti, nonostante l’età, offre un vantaggio notevole: quando lui entra in campo si crea improvvisamente un’atmosfera, una partecipazione del pubblico incredibile. Grazie alle cose grandiose che ha fatto nel corso della sua carriera, a tutte le giocate uniche che ha mostrato ai tifosi, Totti possiede un magnetismo straordinario. Mi viene da sorridere quando, ancora oggi, qualcuno cerca di paragonarlo a qualche altro campione del passato. Totti somiglia solo a Totti! E’ unico, è l’assoluto! Detto questo, è importante che la passione e l’entusiasmo che lo circonda non tolga forza anche agli altri calciatori. Perché lui agisce all’interno di un collettivo”.

Tempo fa lei disse che se la società non rinnoverà il contratto a Totti anche per la prossima stagione lei andrà via. Perché questa presa di posizione?

“Perché ad un certo punto, siccome il rinnovo del contratto tardava ad arrivare, alcuni hanno cominciato a scrivere che ero io a volere che lui smettesse di giocare. Il che è completamente falso. Anzi, io penso che Totti debba giocare fino a quando lo vorrà e la società deve accontentarlo. Se non lo farà andrò via. Così nessuno potrà avere dubbi su come la penso”.

E lei? Cosa vede nel suo futuro?

“Io resto fedele alla mia vecchia idea del privilegiare il gioco di squadra, il collettivo. Riuscire a mettere al centro il pallone e attorno a questo far ruotare tutti gli altri elementi: fisicità, velocità, carattere, qualità tecnica individuale”.

Va bene, ma il suo destino e quello della Roma saranno ancora legati a lungo oppure no?

“A Roma, per tutta una serie di motivi è imperativo vincere. Ormai da questo non si esce più fuori. Non c’è la possibilità di immaginare una crescita graduale, tutto è rapido, accelerato. Quindi è molto semplice: se non vincerò qualcosa significa che non avrò fatto meglio dei miei predecessori e quindi andrò a casa”.

(A. Felici)