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Roma, De Sanctis: “Ho smesso di giocare per Monchi”

Il dirigente giallorosso: "Sono la figura cuscinetto tra la società e la squadra. Tutto quello di cui i giocatori e il tecnico hanno bisogno dalla società passa attraverso il team manager"

Redazione

Il team manager della Roma Morgan De Sanctis ha rilasciato un'intervista al quotidiano Il Centro. Queste le sue parole sulla sua esperienza in giallorosso, prima da portiere, poi da dirigente.

De Sanctis, come ci si sente a stare in panchina e non poter entrare in campo?

"Io sono stato un privilegiato, ho avuto la capacità e la fortuna di giocare fino a 40 ad alti livelli. Ho chiuso la carriera con il Monaco campione di Francia e semifinalista di Champions League. Avevo un altro anno di contratto a Montecarlo, ma la possibilità offertami dalla Roma associata al fatto che non potevo pretendere di giocare per sempre mi ha portato a fare questa scelta. Tutti mi dicevano: “Finché puoi gioca”. E io aggiungo: “Finché ne vale la pena”. Bisogna rendersi conto di quanto tu puoi dare e di quanto puoi ricevere dal calcio. Il calciatore ad alto livello vive un privilegio, quasi un’esistenza parallela. Il calcio giocato non mi manca, perché ho deciso io di lasciare e perché faccio un altro lavoro che mi prende in toto. Però, mentalmente, il passaggio dal campo alla scrivania è duro. Io non ho avuto il tempo di pensarci".

Che cosa fa il team manager?

"E’ la figura cuscinetto tra la società e la squadra. Tutto quello di cui i giocatori e il tecnico hanno bisogno dalla società passa attraverso il team manager. E viceversa. Io svolgo queste mansioni grazie all’aiuto di Gianluca Gombar, un collaboratore preziosissimo".

Il rimpianto?

"In posti come Napoli e Roma il rimpianto è quello di non aver vinto lo scudetto. A Napoli due volte secondi, due volte secondi anche in giallorosso. Prima il Milan e poi la Juve degli ultimi anni mi hanno negato questa gioia. In questi posti avrebbe garantito l’eternità sportiva e sarebbe stata la ciliegina sulla torta".

Chi è l’erede di De Sanctis?

"Sto rivedendo un modo di parare più essenziale. Prima era spettacolare, ora si sta tornando alla concretezza. A me piace il portiere efficace. Quello che più si avvicina alle mie caratteristiche è Alisson, che ha avuto una maturazione più veloce della mia. Io sono diventato più bravo dopo i 30 anni e il brasiliano è maggiormente evoluto nel gioco con i piedi".

A Siviglia ha conosciuto il ds Monchi che poi l’ha riportato alla Roma.

"E’ un andaluso, ha dei valori umani importanti, un grande professionista. Ha apprezzato i miei comportamenti. Ci siamo conosciuti a Siviglia e dopo il primo anno mi ha ceduto in prestito al Galatasaray e la stagione successiva mi ha venduto al Napoli. Quando è arrivato a Roma si è ricordato di me ed è nata la collaborazione".

E’ nata come?

"Alla fine della scorsa stagione, mi ha chiamato: “Morgan, ho bisogno di te”. Ci vediamo, pensavo mi proponesse di fare la riserva di Alisson. D’altronde, io avevo un altro anno di contratto con il Monaco. Mi chiese: “Come stai?”. Io gli risposi affermativamente. Mi fece parlare e solo alla fine disse che mi voleva come dirigente. E non come portiere. Fu molto divertente, mi chiese di smettere in maniera molto brillante…".

E’ vero che a Trigoria, quando capita, interagisce con Di Francesco in dialetto abruzzese?

"Certo, con Eusebio e con gli altri componenti dello staff tecnico. Capita spesso, serve per accelerare la comunicazione. Conosco Eusebio da più di venti anni anche se non abbiamo mai lavorato insieme. Lui è testimone di grandi valori. Però, ho sempre apprezzato una cosa, quella carezza che mi faceva sul viso quando ci incontravamo. Una bella persona. Ora sto conoscendo anche un grande allenatore".