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Paolo Conti: “La maglia della Roma ti rimane dentro. La mia carriera facilitata dai tifosi”

L'ex portiere giallorosso: "La città ti dà tanto. Con Liedholm un rapporto splendido"

Redazione

Paolo Conti, portiere della Roma negli anni Settanta, ha rilasciato un'intervista al sito ufficiale del club giallorosso. Queste le sue dichiarazioni: "Nessuno può capire cosa sono Roma e la Roma finché non ne fai parte, finché non indossi quella maglia. È una città che ti dà anche più di quello che tu riesci a darle. È la magia antica del calcio? Sì, ma non del calcio di oggi. Non sono preparato”.

Non è preparato per parlare di pallone?

Non sono preparato per parlare dello sport che vediamo oggi. Può capitare di mettermi davanti alla televisione per seguire una partita, ma poi inizio a scorrere il cellulare, a pensare ad altro, fino a stufarmi e a spegnere. Trovo che il calcio sia diventato troppo tattico e gli stadi senza tifosi non hanno motivo di esistere. E non mi azzardo in previsioni o pronostici perché non vorrei fare figuracce, non avendo cognizione diretta.

Ma non era rimasto nell’ambito facendo il procuratore?

Ho lasciato anche quell’attività, da qualche anno. Oggi ho 70 anni e vivo a Riccione, dove sono nato.

Come ha vissuto questo periodo condizionato dalla pandemia?

Seguendo le indicazioni di prevenzione, ovviamente. Con tutte le ristrettezze del caso. Però, vivendo in una località marina, a volte si può andare a fare qualche passeggiata al mare. E fa differenza rispetto ad altri posti.

Roma le manca?

Non potrebbe essere altrimenti. Ha segnato la mia vita. Sono arrivato da ragazzo. E sono andato via che ero diventato un uomo. Roma è stata la mia città, la Roma è la mia squadra. È qualcosa che non si può descrivere.

Proviamo.

Direi che la definizione più appropriata è “La Roma non si discute, si ama” di Renato Rascel. È quella che rende meglio l’idea. Giocare nella Roma non è come giocare in un’altra squadra. Si vive di emozioni indescrivibili. Ogni giorno senti la storia, avverti una presenza costante della gente. Vestire quella maglia è qualcosa che ti rimane dentro. E la cosa più incredibile sa qual è?.

Quale?

Che uno se ne rende conto quando va via. Quando tutta quella roba non ce l’hai più. E ti manca.

È stato difficile per lei essere il portiere della Roma?

Per me no. La mia carriera è stata facilitata, ho sempre sentito i tifosi vicino. Restando comunque concentrato sul pezzo, sulla quotidianità, sul da farsi, controllando le emozioni di una città unica.

Unica come?

Ti dà tanto. A volte molto più di quello che cerchi di darle. E si è debitori a vita. Inoltre, in quegli anni ho incontrato e conosciuti personaggi unici.

Tipo Liedholm, ad esempio.

Con il Barone il rapporto è stato splendido. Ho imparato moltissimo da lui. È stato senza dubbio il più grande allenatore che abbia mai conosciuto. Era talmente moderno che anche oggi sarebbe d’attualità. Una figura di riferimento importante, con cui ho condiviso tanti momenti.

Ne racconti uno.

Difficile sintetizzare in poche parole. Era un tipo carismatico, insegnava calcio e dava indirizzi di vita. Si rivolgeva al prossimo sempre con un’ironia raffinata. Parlava a nuora finché suocera intendesse. Quando sbagliavo qualcosa non mi diceva mai direttamente “Paolo, hai sbagliato”. La prendeva alla larga. Tipo: “Paolo, non hai sbagliato, però Yashin o Banks in quella circostanza hanno fatto meglio di te”. Una psicologia straordinaria. Non metteva mai pressione ai suoi giocatori, però otteneva da loro il meglio.

Anzalone, invece? Il presidente che la portò nella Capitale.

Vero, mi prese dall’Arezzo. Ricordo una cosa in particolare di lui. Nutriva uno straordinario affetto per la squadra giovanile. E aveva un sogno: portare la Primavera che vinse il campionato in prima squadra ed affermarla ad alti livelli, portando un blocco radicato di giocatori in Serie A, con la Roma. Era l’epoca di Sandreani, Casaroli, Vichi. Si trattò di un’intuizione giusta. Quello che poi avrebbe fatto, per esempio, il Milan negli anni successivi con i vari Baresi, Maldini, Costacurta. Anzalone fu precursore su tante cose, anche su questo. Peccato che non riuscì a portare a totale compimento questo suo progetto per diversi motivi. E un giorno ce lo disse.

Con quali parole?

Eravamo negli spogliatoi. Con rammarico usò poche parole, ma significative: “L’esperimento dei giovani è fallito”. Gli costò tanto fare quel discorso. Non a caso pochi anni dopo avrebbe ceduto la società a Viola.

È la settimana di Roma-Verona, questa. Ricorda quello del 28 gennaio 1979 in cui Tancredi la sostituì e, di fatto, da lì avvenne il passaggio di consegne tra i pali?

Certo, ricordo bene quel periodo. E non ho mai creato problemi a Franco. Mi sono comportato come si comportò con me Ginulfi quando io diventati titolare della Roma. Alberto fu un gran signore e mi insegnò tanto. Io feci lo stesso. Anche perché non potevano dipendere da Franco le mie difficoltà.

Che difficoltà?

Andai via da Roma nel 1980 dopo una serie di problemi fisici per passare proprio al Verona. Mi ero fatto male al tendine rotuleo, ma non si poteva dire. Sicuramente quell’infortunio condizionò il proseguo della mia carriera. Anche se i migliori anni li avevo già vissuti, a Roma, con la Roma.