Nei giorni scorsi Josè Mourinho ha fatto visita al cardinale Josè Tolentino nella splendida cornice del Vestibolo della Biblioteca Apostolica Vaticana. L'incontro tra i due connazionali ha svariato tra vari temi, dalla fede religiosa allo sport. Ecco l'intervista del Cardinale
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Mourinho: “Ora penso a vincere per i tifosi. Dura accettare lo spreco di talento”
Lunga chiacchierata tra lo Special One e il cardinale Josè Tolentino nella splendida cornice del Vestibolo della Biblioteca Apostolica Vaticana
Volevo ricordare con lei il professor Manuel Sérgio, che so essere una persona molto importante anche nel suo percorso. È sua la nuova idea, lo sforzo di creare una nuova epistemologia per la motricità umana. E uno dei concetti che elabora, tra gli altri, è il concetto di periodizzazione antropologica e tecnica. Lo sport, il calcio, non è soltanto tecnica. Lui dice: non ci sono tiri, ci sono persone che tirano; non ci sono salti, ci sono persone che saltano; non ci sono gol, ci sono persone che fanno gol…
Non ci sono giocatori…
Esattamente, ci sono persone che giocano. Vorrei parlare un po’ di questo, e dell’importanza che ha avuto nel suo percorso.
È iniziata quasi come una lotta, perché arrivo all’Università, Facoltà di Educazione Fisica e Sport, già perfettamente consapevole di quello che voglio per me: allenamento e alto rendimento. Con tutta l’ansia di apprendere ciò che mi interessava, la prima disciplina che ebbi il primo giorno di università fu «filosofia delle attività corporali» — era quello il nome della materia — con il professor Manuel Sérgio. E io esco dalla prima lezione e mi chiedo: a quale scopo? Lui comprese in poco tempo che avevo bisogno di essere aiutato, di essere orientato. Ed effettivamente mi dice in maniera estremamente concreta e diretta: chi capisce soltanto di calcio, di calcio non capisce nulla. È un rapporto che non è terminato, è un rapporto che ancora continua…
Un’amicizia…
Non soltanto un’amicizia, è un processo permanente di apprendimento, e una delle sfide maggiori che noi come allenatori, leader di uomini, chiamiamoli come vogliamo, abbiamo oggigiorno è proprio quella di come essere leader, come ottenere il massimo, perché, ok, l’obiettivo è l’alto rendimento sportivo, ma come tirare fuori il massimo da quegli atleti, che non sono atleti ma uomini per Manuel Sérgio. Mi ha influenzato molto nel senso che ogni persona è diversa dall’altra, in questo caso ogni calciatore è diverso dall’altro, e l’espressione di ciascuno di loro in campo in termini di prestazione è fondamentalmente la conseguenza di un’empatia che si crea tra due uomini: nella fattispecie, tra un uomo molto più maturo (l’allenatore) e i calciatori. Questo tipo di empatia per me è fondamentale. Io porto sempre l’esempio di quando sono uscito dall’università. Prima di entrare nel calcio di alto rendimento, sono stato insegnante. Ovviamente avevo già ben chiaro il mio obiettivo ultimo, ma è stato un processo graduale, e ci fu un anno in cui fui messo a lavorare con bambini con problemi motori, con disturbi psico-emotivi, e io non ero preparato, non lo ero dal punto di vista tecnico. All’università avevamo diverse aree di specializzazione, e la mia era quella dell’alto rendimento, pertanto non ero preparato. Tuttavia, sono riuscito a lavorare bene basandomi su qualcosa di estremamente semplice: amore, empatia, rapporti umani. E ho raggiunto risultati inimmaginabili per me che mi consideravo molto impreparato dal punto di vista tecnico per lavorare con quei bambini. Ho ottenuto risultati fantastici basandomi esclusivamente sui rapporti umani. Ho trasferito questo bagaglio di esperienze nel mio lavoro degli ultimi 20 anni, nello sport ai massimi livelli. Ho sempre avuto questo come principio basico. Non dico di esserci sempre riuscito, a volte non ne sono stato in grado.
Questo che dice a proposito del fallimento è molto interessante. Tra le linee lei dice, «non sempre ci sono riuscito». E in effetti la conoscenza umana, la conoscenza che abbiamo gli uni degli altri, è una conoscenza che matura anche nella misura in cui ci poniamo, e se ci poniamo senza partire dalla certezza assoluta, ci mettiamo in gioco, e molte volte il “fallimento”, il mancato raggiungimento, è una tappa fondamentale per poter crescere nella conoscenza dell’altro. In un certo senso, i nostri fallimenti, le nostre disillusioni, la consapevolezza di imperfezione, ci aiutano a creare questa empatia con gli altri, perché ci mettiamo nei suoi panni e vediamo le cose con un’altra profondità, per essere un gestore di conoscenza.
Le esperienze buone, quelle meno buone, non hanno prezzo. A volte penso che l’unica cosa che non mi piace molto dell’avanzare degli anni è che ho un dolorino qui, un dolorino lì, che mi sveglio un po’ più stanco, ed è l’unica cosa che davvero non mi piace dei miei 59 anni, ma se devo compararmi come persona, come allenatore, che sono due cose diverse, bene se devo compararmi con 20 anni fa… mi dispiace molto non aver avuto 20 anni fa le esperienze, buone e meno buone, e le conoscenze che ho oggi.
Per un allenatore è molto importante questa conoscenza dell’umano…
Assolutamente. A livello tecnico propriamente detto, entriamo in una situazione quasi di déjà-vù, perché quello che mi succede oggi mi è già successo anni fa. Le difficoltà tecniche di oggi le ho già sperimentate anni fa. Un cumulo di esperienze buone e meno buone… ma a livello umano, ogni giorno è un giorno nuovo, e ogni persona è una persona nuova… io mi rifiuto sempre di fare paragoni tra giocatori. In questi ultimi 20 anni ne ho avuti tanti, e ciascuno è unico, a livello tecnico possiamo trovare dei punti di comparazione, ma fare paragoni tra persone è una cosa che odio fare. Ogni persona è diversa dall’altra, e anche il mio modo di pormi con loro è diverso: perché una cosa è essere un allenatore di 35 anni di calciatori di 30, altra cosa è essere un allenatore di 59 anni di giocatori di 25. Mi sento in una posizione così privilegiata e mi sento così felice in questa prospettiva. Quando uno è giovane, è all’inizio della carriera, pensa di sapere tutto. E quando oggi vedo le generazioni più giovani con questo tipo di pensiero, non lo critico… ci sono passato da lì, la maturità è una cosa fondamentale. Invece lo sport di alto rendimento conosce momenti di vera crudeltà.
Per esempio?
Siamo pagati per vincere. Gli atleti, non gli uomini, sono pagati per vincere. Stiamo parlando di alto rendimento, e a volte ci sono decisioni nella gestione di una squadra che hanno qualcosa di crudele: non c’è il tempo di lasciare maturare, di lasciare crescere…
La dittatura dei tempi stretti…
L’errore si paga. Se commetto un errore, lo pago con l’esonero. Se un giocatore commette un errore, lo paga non giocando a beneficio di un altro. C’è qualcosa di crudele, ma non possiamo lasciare che la natura del nostro lavoro si sovrapponga a quello che siamo come persone. Ce l’ho ben chiaro questo. Cerco di aiutare gli altri e me stesso a essere migliore. Una cosa difficile per me da accettare è lo spreco del talento, è una cosa che ancora oggi dopo 30 anni di calcio, è difficile per me da accettare. A volte, però, lo spreco di talento è legato al percorso di vita che alcuni giocatori hanno avuto, e in questo senso dobbiamo cercare di essere pedagoghi fino in fondo. Lo sport di alto rendimento, in particolare il calcio, che è lo sport più industrializzato a tutti i livelli, ha qualcosa di crudele.
Ma è importante questo: non smettere di aiutare ciascuno a nascere, a scoprire, a maturare, a sviluppare il proprio talento. Una delle parabole di Gesù è proprio sul tema dei talenti: questa necessità da parte di ciascuno di noi di non sotterrare il proprio talento, ma di maturare la propria vocazione. Ciascuno di noi è nato con un bagaglio di attitudini, competenze e può trasformare la propria vita.
Percepisco la mia evoluzione come persona pensando al fatto che per molti anni ho voluto vincere per me stesso, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto, voglio aiutarli… Penso molto di più al tifoso comune che sorride perché la sua squadra ha vinto, alla sua settimana che sarà migliore perché la sua squadra ha vinto. Continuo a essere un “animale da competizione”, per così dire, continuo a voler vincere come o più di prima, ma prima mi concentravo su me stesso…
Adesso, invece, prevale l’importanza di regalare allegria agli altri. Le persone, per esempio, il tifoso comune, quando si reca allo stadio, non ci va soltanto per dimenticare, per festeggiare, non è soltanto alla ricerca di una piccola allegria, ma in qualche modo è presente l’ambizione di toccare qualcosa, di andare più lontano, di comprendere il mistero della vita, il suo significato. Non so se questo per lei ha senso…
Ce l’ha. Lo sento. Nel percorso verso una partita, intendo l’uscita dall’hotel, la discesa dal pullman, l’arrivo allo stadio, la passeggiata verso lo spogliatoio, la camminata dallo spogliatoio al campo prima dell’inizio della gara c’è molta spiritualità in tutto questo, non è mai una routine, per quanto si giochi decine di volte nello stesso stadio, e si faccia sempre lo stesso percorso, è un momento che ha qualcosa che non si vede, ma che si sente tanto. Lo ritengo di una bellezza enorme e ritengo che il giorno che smetterò di allenare, che spero non sia presto, sarà forse la cosa che più mi mancherà: sentire questa dimensione che mi porta verso direzioni che non ho mai condiviso con nessuno, e che oggi forse condivido per la prima volta. Camminare verso la partita e parlare con Lui…
Parlare con Dio…
Parlo con Lui e finisco sempre per dire: la mia famiglia è più importante di questo. Dammi un aiuto se hai tempo… ma se la scelta dovesse essere tra questa partita e il benessere delle persone che amo, non ci pensare due volte…
In fin dei conti, è una grande partita tra questo gioco e il grande gioco della vita, non è vero?
Esattamente… un paio di mesi fa ho raggiunto proprio qui a Roma il traguardo delle mille panchine da allenatore. Adesso siamo già ben oltre questa cifra. Ebbene non c’è differenza tra l’ultima partita e la prima. Questo mio lato, che è mio proprio, mi fa sentire qualcosa che non è mai uguale. Mi sto aprendo con lei, e di conseguenza con il mondo, ma è un qualcosa di molto intimo. Senza dubbio il calcio non è, come la gente pensa, la mia vita, è soltanto una parte importante della mia vita, ma c’è un’altra parte che è molto più importante del calcio. Con la massima umiltà, ma al tempo stesso volendo mantenere una relazione intima con Lui, mi piace mantenere una relazione quasi di amicizia, in cui ci si dà quasi del Tu.
Una delle cose che Manuel Sérgio dice, e credo che sia anche questa una sua eredità, è che non crede nella parola superamento. A volte sentiamo gli sportivi dire: è una scuola di superamento, impari a superare i tuoi limiti, le tue paure, ad andare oltre. Tutto questo è vero, ma lui dice che la parola superamento è inadeguata. La parola giusta è trascendenza, che è una parola molto più ampia, che ha a che vedere senza dubbio con il superamento, è l’uscita da noi stessi, in un movimento intenzionale di lavoro, di proiezione, di fiducia, ma al tempo stesso è un’apertura al mistero, alla pienezza, al divino, a quello che può dare senso all’uomo, e non è un caso che in questi ultimi anni il professor Manuel Sérgio, termini tutte le interviste dicendo che quello di cui si ha più bisogno è Dio. Questa è una cosa che mi tocca nella relazione con lui, e ogni volta che ho l’occasione di ascoltarlo. Ritiene che questa relazione tra superamento e trascendenza sia rilevante anche per la sua visione?
È un tema di cui, in modo più astratto, in certe occasioni, parlo con i calciatori. Non entro ovviamente nel campo della religione, anche perché ho davanti a me 25 uomini con tradizioni diverse, credi diversi, ma io lo chiamo il segno +, quello che può fare la differenza, un convincimento comune, a cui ognuno dirà di sì, il libero arbitrio, si crede in quello che si vuole, si crede più o meno nel divino, ma il plus viene sempre un po’ da quell’area che non si tocca, ma si sente, è astratto. Ritengo, per esempio, che per la preparazione di una competizione di altissimo livello, che comporta pressione, responsabilità, dove bisogna superare o trascendere, occorra metterci qualcosa in più di quello che abbiamo allenato, a cui ci siamo preparati, e questo qualcosa in più ritengo che sia molto legato alla propria spiritualità, quello che fondamentalmente alimenta quel segno +. Quel qualcosa in più può essere anche pensare tutti insieme alle persone che desiderano fortemente che oggi vinciamo. E chi sono queste persone: quelle che ci amano, quelle che noi amiamo, quelle che amano il club e i suoi simboli. Penso che nei momenti chiave devi scavare nel tuo profondo e non aggrapparti esclusivamente alla preparazione. Non basta l’aspetto tattico, tecnico, fisico, mentale, serve altro, e quando il professor Manuel Sérgio fa questa distinzione tra superamento e trascendenza, pur senza stare dentro quella che è l’operatività che porta a una partita, è a questo che fa riferimento… È una persona saggia, con una conoscenza vastissima, e ci ha insegnato tanto lasciando un segno.
Possiamo parlare, se permette, di questo segno + nella sua vita, di questa sua storia: so che quando lavorava a Leiria aveva un rapporto speciale con Fatima, era un punto di riferimento, e qui a Roma passando da San Pietro verso il lavoro, ha qui questo spazio, perché è uno spazio simbolico, non è soltanto uno spazio geografico, è uno spazio investito di un senso di una presenza, so che passare per San Pietro oggi è per lei sempre qualcosa di speciale. Vuole parlare un po’ del suo rapporto con Dio, del suo cammino spirituale, come si traduce in concreto?
La mia relazione con Dio si traduce nell’amore che nutro per i miei cari. Credo che Lui non si arrabbi per il fatto che indirizzi il mio amore per Lui in questa direzione. La mia famiglia, i miei amici, quelli che io amo, quelli che mi amano, quelli che sono ancora con noi e quelli che ci hanno già lasciato, è così che riesco a tradurre in pratica il mio amore per Dio. Essere solidale anche con persone che non conosco, nel senso di preoccuparmi, di cercare di aiutare in un modo o nell’altro…
La Bibbia dice questo nella Lettera di Giacomo: non possiamo dire di amare il Dio invisibile se non amiamo quelli che vediamo…
È esattamente questo che penso. Se lei mi chiede se Fatima per me è speciale, la risposta è sì. La Fatima silenziosa, deserta, in cui stabilire un rapporto intimo… Essendo una persona più o meno conosciuta, le persone si avvicinano, ovviamente animati dalle migliori intenzioni, ma purtroppo finiscono per turbare un momento che vorrei fosse per me stesso. Per questo motivo sono una persona che visita Fatima di notte. Anche a Roma visito spesso San Pietro di notte, la mascherina aiuta, l’oscurità della notte anche…
E cosa sente in quei momenti in cui è in silenzio…
Mourinho: Sono in silenzio, ma converso molto. Può essere un po’ paradigmatico, e forse le persone che mi hanno seguito nella mia carriera, mi guardano e non vedono in me questa persona: il calcio è l’ultima cosa di cui parlo, è l’ultima cosa a cui penso, l’ultima cosa per la quale chiedo qualcosa. Ed è esattamente quello che stavo cercando di dire. Essere un buon padre, o cercare di esserlo, perché è difficile da misurare, solo gli altri potranno dirlo, ma cercare di essere un buon padre, un buon marito, figlio, un buon amico, questo tentativo è la maggiore motivazione che una persona possa avere nel quotidiano.
La preoccupa questo momento che vive il mondo, questa guerra in Europa, con sofferenze e distruzioni devastanti dopo due anni di pandemia, sentiamo di entrare in una specie di tunnel di disperazione…
Il Santo Padre Francesco dice che la guerra è un fallimento dell’umanità, dei politici. La penso esattamente così, anzi, penso che sia un fallimento umano prima ancora che politico. È un fallimento brutale, è la perdita dei principi o il loro mancato sviluppo, è l’evoluzione del pensiero umano verso la direzione errata, ciò che è fondamentale e cioè che lo è meno. È qualcosa di difficile da spiegare. È un fallimento a tutti i livelli dell’umanità: è un fallimento nostro.
Come ha detto Papa Francesco, siamo tutti sulla stessa barca, e pertanto l’uscita da questa situazione deve essere una umanità più solidale, in grado di creare forme di fraternità, di inclusione, di aiuto reciproco, che permetta di costruire davvero un futuro nuovo, altrimenti è la logica del mondo vecchio che trionfa, la logica della guerra che purtroppo accompagna la storia dell’umanità da tanti secoli. Papa Francesco è una figura ispiratrice per lei?
Lo è. È fonte di ispirazione per me perché riesco a guardarlo e, senza aver avuto l’onore di conoscerlo, lo ascolto e non mi stanco di ascoltarlo. Lo ascolto e mi rivedo nella sua semplicità. Seguo l’Angelus domenicale attraverso la televisione e penso che se lo avessi nella “mia” chiesa a Setúbal, lo ascolterei allo stesso modo. Quest’uomo “non è il Papa”, è un padre, un parroco di una nostra piccola parrocchia del nostro piccolo Portogallo. Vedo quella semplicità, e trovo che è capace di creare empatia con persone di fedi diverse dalla nostra.
Un’ultima considerazione sulla definizione di gioco. Il gioco è un’esperienza umana, organizzata intorno a determinate regole. Queste regole sono tecniche, ludiche, hanno a che fare con le modalità sportive, ma sono anche etiche. Lo sport è anche per questo paradigma delle relazioni umane, l’etica infatti è fondamentale per il grande gioco che è la vita del mondo, innanzitutto come base per il riconoscimento dell’altro.
Trovo che sia di una bellezza enorme e che rechi un contributo enorme per le nostre generazioni il lavoro che si fa a livello di gioco prima che diventi sport professionistico. Talvolta capita di osservare giovani non molto talentuosi e in maniera obiettiva si afferma che probabilmente non arriveranno ai massimi livelli. Tuttavia, la relazione che si instaura tra il gioco e i più giovani è qualcosa che reca un contributo assolutamente fantastico. È tutta una questione educativa, e nelle scuole, nelle fasce d’età più basse, e nello sport di formazione, questo deve essere l’asse centrale di sviluppo, perché i bambini che un giorno non saranno sportivi professionisti, saranno appassionati di sport. I bambini che non saranno in campo, saranno fuori, ed è tutto legato… il bambino che cresce in uno spogliatoio con amici, con cui si creano legami forti nello sport e nel gioco, cresce con altre razze, religioni, quando sarà adulto, questa base sarà presente. Un giovane italiano cresciuto con un africano arrivato in Italia come rifugiato da una di queste situazioni che abbiamo per il mondo, credete che un giorno sugli spalti sarà aggressivo, razzista, xenofobo? Non lo sarà. La scuola e lo sport di formazione hanno un ruolo davvero importante.
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