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Lo Zio Sam è ancora un po’ stordito

LaPresse

Il disastroso addio di Francesco Totti indebolisce ancora di più la Roma e i suoi proprietari italo-americani. Un fallimento clamoroso.

Redazione

La Roma continua a far parlare di sé, sia per i pochi risultati in campo sia per le burrascose vicende societarie. Da una campagna acquisti che fatica a decollare, a una governance complicata e complessa, passando per la situazione relativa alle bandiere della Capitale. “Avrei preferito morire piuttosto che vivere una giornata così. Ma per il bene della Roma è meglio che io mi faccia da parte”. E’ con queste parole forti ed emozionate che Francesco Totti, scrive Antonio Felici su France Football, ha annunciato lo scorso lunedì, nel corso di una diretta di un’ora e mezza trasmessa anche da RAI 2, di lasciare il club dopo trenta anni, dimettendosi dal suo ruolo da dirigente. “Avevo intrapreso questa nuova carriera in punta di piedi, pronto ad imparare e crescere. Ma loro [i proprietari del club ndr] non hanno mai tenuto conto delle mie osservazioni, l’ultima parola spettava sempre a Londra”. Il mitico capitano giallorosso fa riferimento a Franco Baldini, che risiede nella capitale britannica.

Totti il pigro - Francesco Totti, etichettato come “pigro” da Baldini, è stato costretto a ritirarsi dall’attività agonistica nel 2017, prima che Daniele De Rossi venisse a sua volta accompagnato alla porta, qualche settimana fa, nonostante si fosse detto disposto ad accettare un contratto a gettone. Una decisione presa senza consultare Totti. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Possibile. Così come il fatto d’aver deciso di ingaggiare Gianluca Petrachi (ex Torino) e Paulo Fonseca (es Shakhtar), rispettivamente direttore sportivo e allenatore.

Una governance complicata - Lo tsunami provocato dall’addio di Totti sembra rendere più fragile il progetto di James Pallotta e dei suoi soci. Ma per chi segue da vicino il club, questa evoluzione delle cose non ha nulla di sorprendente a vedere come funzionano le cose all'interno. All’inizio del 2017, Walter Sabatini, appena dimessosi dal ruolo di direttore sportivo per divergenze con Franco Baldini affermò: “Attualmente il club ha quattro centri di pensiero: a Roma, Boston, Londra e Siviglia!”. Un modo chiaro per dire che i dirigenti presenti a Trigoria, il quartier generale romano dei giallorossi, dovevano gestire le direttive di Pallotta dagli Stati Uniti, di Baldini dall’Inghilterra e di Monchi dalla Spagna, il quale Monchi, pur non essendo ancora fisicamente presente a Roma, già dispensava le sue indicazioni in qualità di futuro direttore sportivo, pur non essendolo ancora.

Uno spogliatoio esplosivo - Tutto questo, evidentemente, non aiuta nella gestione delle questioni interne. A Trigoria si è andati avanti per mesi in un clima teso, tra malumori e sospetti. Una recente inchiesta del quotidiano romano La Repubblica ha fatto riferimento ad una situazione esplosiva riportata in una mail di Ed Lippie, preparatore atletico e orecchio di Pallotta, che ha segnalato al suo boss le fibrillazioni all’interno dello spogliatoio della Roma, in particolare una presunta fronda guidata dai senatori (Kolarov, Manolas, Dzeko, De Rossi) finalizzata a far cadere le teste dell’allenatore Eusebio Di Francesco e Monchi e tenere il più possibile lontano Totti dalla squadra. Tutti hanno smentito categoricamente. Certo è che questa atmosfera deleteria purtroppo non risale ad oggi. Nel 2012, nel corso della sua seconda esperienza sulla panchina della Roma, spiegò: “Alla Roma mancano le regole. La società dovrebbe stabilire dei paletti e farli rispettare”. Ma invece di ascoltare Zeman, James Pallotta preferì licenziarlo.

Una campagna acquisti disastrosa - Questa Roma all’americana in otto anni non ha prodotto solo cose negative. Si ricordano due ottimi secondi posti dietro la Juve sotto la gestione di Rudi Garcia (2014 e 2015) o ancora il bel percorso in Champions League 2017-18 sotto l’egida di Di Francesco, con l’eliminazione del Barça nei quarti (1-4 al Camp Nou, 3-0 all’Olimpico) e una finale mancata di poco (2-5 a Liverpool, 4-2 a Roma in semifinale). In diverse occasioni è sembrata una bella squadra, con giocatori di grandi qualità. Questi però poi hanno sempre fatto le valigie, indebolendo la rosa. E uno dei principali responsabili di questa politica è stato Monchi, probabilmente il più grande errore del duo Pallotta-Baldini.

Introiti insufficienti - C’è almeno una cosa sulla quale gli americani non hanno ingannato il mondo giallorosso: non hanno mai promesso di svenarsi per rinforzare la Roma. Sbarcando in Italia, Thomas Di Benedetto, capofila della cordata americana prima di passare la mano a Pallotta, precisò che il club avrebbe avuto attenzione all’equilibrio di bilancio. E che il budget sarebbe stato stabilito in funzione delle entrate e non di afflussi regolari di capitali provenienti dalla proprietà. Marketing, merchandising e sponsorizzazioni non si sono sviluppati in maniera significativa, nonostante Pallotta abbia cambiato regolarmente il management. Al tempo stesso hanno incrementato i costi delle strutture e degli stipendi del club, in particolare per quanto riguarda la comunicazione, aumentando i costi operativi di diverse decine di milioni di euro.

Ossessione stadio - Il progetto che doveva permettere di rilanciare le ambizioni della Roma non sembra ancora poter vedere la luce. Annunciato inizialmente per il 2016, al momento sembra rinviato alle calende greche! Già in occasione delle sue prime e rare visite a Roma James Pallotta non aveva fatto mistero del fatto che la costruzione dello stadio era al centro di tutti i suoi piani. Uno stadio costruito nell’ambito di un progetto immobiliare ambizioso, il business park di Tor di Valle, nella zona sud-est di Roma, presentato come un affare da 1,5 miliardi di euro. A dimostrazione del fatto che il nuovo impianto non era che uno degli elementi dell’affare, rappresentando appena il 14% del volume totale delle costruzioni! Ma questo cantiere titanico tarda a vedere la luce. E affonda tra le sabbie mobili della burocrazia e la giustizia.

Umiliati dalla Lazio - Dopo tanti anni Pallotta e soci avrebbero dovuto capire una cosa: non si dirige un club come la Roma, caposaldo imprescindibile della società romana, come si può fare con una franchigia nord-americana. E che serve intraprendere rapidamente una direzione chiara ed omogenea. Altrimenti la situazione del club rischia di precipitare. Il problema è che James Pallotta non sembra disposto ad allargare i cordoni della borsa senza essere sicuro che il nuovo stadio sarà costruito. La tentazione è quella di far vivacchiare la Roma fino a quando il progetto avrà finalmente esito positivo. Oppure di venderla. Ma a chi? L’unica pista credibile porta in Qatar, già sponsor del club (Qatar Airways). Tuttavia, per ora ancora non c’è nulla di concreto con una Roma che perde appeal ad ogni scossone. Dall’inizio dell’era americana, non ha ancora vinto un titolo quando, nello stesso periodo, la Lazio, l’eterna rivale, ha portato a casa due Coppe Italia e una Supercoppa con un budget largamente inferiore. L’affronto supremo!