Un rigore, tre errori con due giocatori diversi. È successo all'Olimpico in Roma-Lille, evento più unico che raro che anche la matematica ha fatto grande fatica a spiegare. Dovbyk due volte, poi anche Soulé hanno partecipato a un siparietto diventato già virale in tutto il mondo destinato a rimanere nella storia giallorossa e del calcio. Ma questa serie incredibile di errori dagli undici metri è stata solo frutto del caso e della sfortuna? Dietro c'è un altro mondo, quello della mente di un uomo e di un atleta che evidentemente ha giocato un brutto scherzo. A parlarne a Forzaroma.info è stato Sandro Corapi, life, business e sport Mental Coach tra i più importanti in Italia con un'esperienza di oltre 30 anni anche con vari top player di Serie A: "Cosa si è innescato in quei momenti nella testa di Dovbyk? C’è una componente di insicurezza iniziale, poche convinzioni. Il calciatore già da prima del rigore ha qualcosa che non va, nelle convinzioni. Anche la postura stessa se guardiamo bene non è la postura di una persona che va convinta a tirare il rigore. Il linguaggio del corpo va visto. A monte ha sbagliato nella testa ancora prima di calciarlo. Il rigore si sbaglia prima nella testa, poi nella realtà".

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Il mental coach Corapi a FR: “Dovbyk sbaglia i rigori prima di calciarli, vi spiego perché”
Quanto incide la pressione del pubblico e del momento della partita e della sua carriera? "La pressione amplifica le sue insicurezze interiori. Anche il senso di responsabilità verso risultato, perché il pareggio dipende da te, poi la responsabilità verso l'ambiente che è la cosa più potente. Perché temi il giudizio, gli occhi sono puntati su di te e non sai gestire bene le emozioni. Non sei concentrato al 100% per pensare solamente al rigore, quindi metti metti la paura di sbagliare davanti al coraggio di riuscire".
Ma poi a sbagliare è anche Soulé. "In Soulé le dinamiche non cambiano, è andato con una responsabilità ancora maggiore, erano aumentate le aspettative su di lui, sentiva ancora di più la pressione. E la pressione ha sviluppato l’emozione della paura di sbagliare. E quando la paura domina sul coraggio o sulla testa libera i muscoli diventano duri".
La compagna di Dovbyk, Yuliia, ha parlato delle difficoltà e dell'ansia costante per le condizioni di amici e parenti rimasti in Ucraina con la guerra. Quanto di questo il giocatore porta in campo? "Di sicuro fuori dal campo incide, se uno ha dei familiari che vengono bombardati il pensiero va lì, è normale. Ma quando si è in campo la mente, di solito, pensa solo alla prestazione, al gioco. I pensieri depotenzianti dei giorni precedenti vanno a minare convinzioni ed energie, l'autostima, si arriva in campo già un po' scarichi. La pressione poi genera cortisolo che offusca la parte cognitiva della mente e non si ragiona. Questo incide sulla prestazione. Ma generalmente, poi bisogna vedere caso per caso, il calciatore non pensa ad altro. Pensa solo a quello che succede sul campo e sugli spalti".
A questo proposito, quello che dicono e manifestano i tifosi anche allo stadio, quanto entra nella testa del giocatore quando è in campo? "Dipende dalle convinzioni del giocatore. Se un giocatore è strutturato non gliene frega nulla di quanto succede dagli spalti. Questo se è strutturato mentalmente e se magari si fa seguire da un Mental Coach. Il mental coach lavora per anestetizzare il calciatore rispetto a queste dinemiche. Se è debole e fragile mentalmente pesano come un macigno i fischi o gli eventuali giudizi. Può anche essere immaginario, può essere magari un mugugno che ti butta giù. Perché la testa non è concentrata su quello che devi fare ma su quanto accade all’esterno. Quindi è una dinamica prettamente dell'ambiente esterno che incide fortemente nell'aumentare o diminuire le convinzioni di un calciatore".
Quindi da questo evinciamo che Dovbyk caratterialmente non è un giocatore forte? "Esatto, potrebbe essere fragile ma può essere anche momentaneo per il ragazzo. Io ho lavorato anche con top player della Roma, che hanno attraversato momenti particolari ma che - una volta focalizzati nell'attenzione - si sono rimessi in pista alla grandissima".
Roma, Corapi: "Pellegrini può ancora tornare leader. Gli infortuni di Dybala? Partono dalla testa"
—Un tema, questo, che è molto forte in quella che è stata l'avventura di Lorenzo Pellegrini alla Roma. Ora è tornato a buoni livelli, rigenerato da Gasperini anche un po' a sorpresa. Quanto può aver pesato in positivo il fatto che non sia più il capitano 'ufficiale'? "Gli ha permesso, insieme alla condizione, di tornare a essere performante? "Pellegrini ha reagito molto bene, è stato molto bravo e si è fatto trovare pronto mentalmente e fisicamente. Il gol al derby lo ha rivitalizzato in modo eclatante, da 'zero' a mille. Nel calcio basta un episodio o qualcosa per creare un'attività dopaminergica, si attivano i neutrasmettitori del piacere, della gratificazione e della convinzione e un episodio positivo ne porta altri, entrando così in uno stato di flow, ovvero di flusso. Lui è entrato con leggerezza mentale e questo lo ha aiutato, ci può stare anche questo".
Pellegrini però in questi ultimi due anni ha sofferto molto il giudizio dei tifosi, le critiche, quando non riusciva a fare bene, come diceva Ranieri non sorrideva più. Ci sono ancora i presupposti perché lui possa tornare a essere decisivo e leader nella Roma? "Per me ci sono ancora i presupposti, soprattutto se lavora sugli aspetti mentali. Assolutamente sì. Lui è romanista dentro e sente ancora di più il peso di questa responsabilità. Ecco perché il ragazzo deve alleviare la pesantezza mentale. Ci sono tante tecniche, che possa scendere in campo leggero di testa eliminando le congiunture che arrivano dai giudizi dell’ambiente. Per me può dare tanto".
Un altro aspetto importante della mente è quello che si ripercuote sugli infortuni, che hanno tenuto e tengono Paulo Dybala così spesso ai box. Quanto conta la questione mentale o la paura anche di farsi male? "È notevolissima la questione mentale. Ci sono alcuni giocatori - e torniamo sulla gestione delle emozioni - che se nella loro testa si attivano i neurotrasmettitori dello stress automaticamente il nostro sistema salute ne risente. Partendo dal sistema immunitario arrivando a quello muscolare, c’è maggiore fragilità fisica nel momento in cui c'è un problema di gestione delle emozioni".
Quindi se uno ha paura di farsi male si fa male... "Esatto, sono delle profezie autoavveranti, quello che pensi ti succeda allora ti succede. Se sposti il focus e inizi a fare pensieri potenzianti anziché depotenzianti cambia tutto a livello inconscio. Perché si creano a livello inconscio - a meno che non siano infortuni traumatici - delle convinzioni vere e proprie".
E queste sono cose che si possono ancora modificare anche a 33 anni e con una carriera arrivata nella sua parte finale? "Sì, la nostra mente grazie alla neuroplasticità può cambiare. Ma bisogna conoscere le tecniche e lavorarci".
Per Ferguson vale lo stesso di Dovbyk? "Ferguson è partito in quarta, ma lì dipende anche dalla gestione di Gasperini. Se comunica con i ragazzi, se fa discorsi di gruppo, io non lo conosco se non per fama. Ma la gestione delle risorse umane è un fattore molto delicato".
L'alternanza in questo momento tra Dovbyk e Ferguson è buona o rischia di togliergli qualcosa? "Dipende dalla gestione di Gasperini, un mister deve conoscere - parlo in generale - la personalità o il carattere dei giocatori, sapere se si carica positivamente non facendolo giocare o si demotiva pensando che l'allenatore non ha fiducia in lui. La comunicazione è fondamentale nei confronti dei ragazzi, dirgli perché non gioca. È importante in questi casi dire il perché magari un calciatore non gioca. Il ‘non giochi e basta’ ti distrugge, il 'non giochi ma lavora su questi punti' è motivante. Dipende dalla comunicazione. L’importante è che Gasperini crei una sana competizione e non che uno dei due pensi che non gioca perché non si fida o perché l'altro è più bravo".
Ma quindi, in definitiva, Gasperini ha sbagliato a mandare Dovbyk sul dischetto? "In realtà, lì non è che si sbaglia. In quel momento ha ritenuto opportuno mandare a calciare il rigore un giocatore che sta facendo abbastanza bene. Quindi la scelta era anche giusta, è il ragazzo che ha sbagliato perché non è arrivato sul dischetto con le giuste convinzioni".
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