L’ultras non va bene, il tifoso che ama Totti nemmeno, figuriamoci il cliente che si lamenta per un prodotto non all’altezza. Stanca e annoiata su un divano la nuova Morale romanista scarta davanti a sé i pretendenti all’ambito ruolo di sostenitore della Roma. E’ sola nel palazzo, ormai sono rimasti pochi vassalli e la popolazione non la ama più come un tempo anche se è più bella di un tempo. Ma lei fa la difficile. Nemmeno chi urla al passaggio del suo Primo Cavaliere è gradito. Troppo becerume. Poi però quando cala il silenzio si intristisce e ripensa a quando era tutti i giorni una festa.
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Dopo la Tessera ecco la Patente del tifoso. E l’Olimpico si svuota
Le parole di Nainggolan hanno riportato al centro del dibattito il cambiamento epocale del tifo giallorosso. Insultata e sparita la “pericolosa” Curva Sud, ora è il turno del resto dello stadio. Ma che senso ha giudicare l’istinto di chi ama?
NAINGGOLAN HA APERTO IL VASO DI PANDORA - Le parole di Nainggolan hanno aperto un dibattito e l’analisi che di solito riguarda le scelte dell’allenatore o il calcio mercato ha trasferito il suo critico sguardo verso chi dal calcio non prende un euro, anzi ce ne rimette pure qualcuno. E spesso sono analisi fatte da chi il tifo di Roma lo conosce poco o nulla: imprenditori americani, calciatori stranieri, giornalisti con accento nordico. Tutto ciò avviene in una piazza che ha avuto un solo vanto nella sua storia: la passione della gente, la forza di uno stadio pieno anche per un Roma-Vicenza, anche quando non c’era nulla in ballo. Non c’era Totti, c’erano Giannini, Losi, Scarnecchia, Rizzitelli, Taddei. Non avevano entourage, radio, profili social, eppure la gente li amava lo stesso. E la gente, intesa come espressione del popolo, occupava prevalentemente quel settore dello stadio che si è voluto svuotare. Prima con insulti alla “fucking idiots”, poi con provvedimenti quantomeno originali, ma anche con le orecchie mostrate dopo un gol arrivato in seguito a prestazioni scialbe. Orecchie che avevano dimenticato gli applausi dopo un 1-7 in casa che aveva messo la Roma al centro delle barzellette di mezza Europa. Orecchie che non hanno mai udito le testimonianze di tanti ex che ancora decantano i brividi, la commozione, la sorpresa di vedere quella massa giallorossa sempre presente. Anche con una bacheca vuota, anche con le tasche vuote. Una massa che a volte si incazza, così come ci si incazza col proprio figlio se si mette in pericolo. E’ successo anche ultimamente, e qualcuno ha pensato di denunciare piuttosto che di comprendere e magari dimenticare. Non quegli striscioni infamanti, sia chiaro. Una massa che ha festeggiato per 8 mesi uno scudetto, che ha perdonato il 26 maggio, che ha portato su un palmo di mano tanto Falcao quanto Tarzan Annoni. Perché si esaltano qualità, tecniche e umane. E non erano tutti ultras, erano tifosi. Di curva e non.
L'ESSENZA DELLA SUD E IL NUOVO TIFO - "Tifare è un dovere di tutti. Riuscirci un onore di pochi”, recitava d’altronde un motto del Commando negli anni ’80 riferendosi proprio alla differenza tra il tifo romanista e quello degli altri club. Roba che non si vede a Milano, Londra, Torino o Madrid. Oggi quella Curva, quei cori che coprivano borbottii e malumori tipici delle tribune non ci sono più. Sono spariti tra chi ha deciso di non accettare barriere e multe e chi si è stancato di sentire promesse. Per la gioia di radical chic, benpensanti e procacciatori di clientela “ufficiale”. Finalmente l’Olimpico poteva riempirsi di famiglie (ma ce ne erano più prima), di presunti vip, di “brave” persone con la sciarpa originale e l’ iPhone in mano pronti a scattare selfie da pubblicare sui social ufficiali del club. Una clientela nuova pronta a lamentarsi giustamente per la pista d’atletica, il parcheggio lontano e in mano ai rom, la pioggia che entra da ogni pertugio e i tornelli malfunzionanti. Una clientela (appena 25 mila persone) che non “tifa solo la maglia” e quindi non tifa se le cose vanno male anche perché non abituata a un certo tipo di sostegno, a una mentalità che si è voluta uccidere. Che è pronta ad amare i calciatori ma che sa distinguere per chi vale la pena spendere gocce di sangue dal cuore e chi no. Così capita a un bambino di 12 anni o a un adulto di 60 in un Roma-Samp 1-2 (con la pioggia che cade incessante e la reazione frigida della squadra nel primo tempo) di emozionarsi per un numero, una faccia, una storia. Così come ci capita di emozionarci quando vediamo un parente che ci ha dato tanto e che dopo essere stato messo in un angolo ottiene un sorriso, così come ci emozioniamo quando vediamo un amico felice, un fratello che piange di gioia. Perché il tifo nel calcio è istinto, e l’istinto non si può incanalare in “progetti” e indottrinamenti. Ci provò nel 1930 Renzo Nostini, presidente della Polisportiva Lazio (nobile e antipopolana): “Non capisco i tifosi di calcio, urlano anche quando la squadra perde. Negli altri sport non avviene”. In realtà oggi avviene. L’idolatria tanto disprezzata è visibile nell’atletica con Bolt, nel basket con Kobe Bryant, nella Moto Gp con Valentino Rossi e addirittura nel nuoto o nel nobile tennis. Si emozionano anche i tifosi stranieri al passaggio di Totti (questo lo può vedere solo chi va allo stadio e non pontifica da uno studio tv) perché le “Storie” emozionano. E questo capita nel calcio, così come nella vita. Capita anche di fischiare perché il prodotto non piace, e pagando 120 euro una tribuna è pure legittimo. Soprattutto se non si vince nulla da 8 anni, soprattutto se si viene da cocenti delusioni. Eppure la patente al tifoso continua a essere rilasciata, ad essere ritirata. Deliberatamente, ingiustamente. Qualche anno fa un club di serie B mise dei tifosi di cartone nel settore invenduto per fare colore. E’ un’idea, anche se i cartonati non pagano e non ascoltano radio o tv.
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